Nell'esercito dei senza dimora sempre più donne e sempre più giovani
Settemila donne e tredicimila giovani. Sono i soggetti più a rischio nell’universo di chi sceglie – ma molte volte non di scelta si tratta bensì di scivolamento progressivo o addirittura di caduta libera – la vita di strada. Al progetto “Housing first”, nell’ambito della campagna #HomelessZero, il ministero del Lavoro destina 100 milioni. Firmato nei giorni scorsi a Taormina il protocollo d’intesa con la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora.
Secondo l’ultima indagine nazionale condotta nel 2014 dalla Federazione italiana organismi per le persone senza dimora (Fiopsd), nel nostro Paese vivono oltre 50 mila persone senza dimora, il 60% stranieri, il 40% italiani, 30mila dei quali “cronici”, ossia in strada da oltre quattro anni.
Gli uomini sono l’85,7% (oltre 43mila); le donne il 14,3%, oltre 7mila, età media 45 anni. Molti si rivolgono ai servizi (mense, dormitori, docce), ma almeno 5mila si lasciano avvicinare solo dagli operatori del Gruppo delle unità di strada coordinato da Fiopsd.
All’interno di questo quadro si registra la presenza di più di 13mila giovani tra i 18 e i 34 anni, categoria, come le donne, ad alto rischio, soprattutto i più piccoli sui quali tuttavia manca un dato preciso. Due gli interrogativi: che cosa spinge alla forma più estrema di emarginazione persone che dovrebbero coltivare e tentare di attuare un progetto di vita? Come reintegrarli evitando che la loro condizione si cronicizzi?
Per Linda Laura Sabbadini, statistica sociale, “le donne sono per fortuna una minoranza ma si trovano gravemente esposte al rischio violenza, prostituzione e, in età avanzata, malattie”, mentre fra le italiane sta aumentando la “cronicizzazione” che “occorre intercettare con più efficacia”.
Vero nodo cruciale sono tuttavia i giovani
“Cadere in povertà nella prima fase della vita – spiega l’esperta – crea un serio rischio di esclusione sociale; se poi la povertà è estrema il rischio è ancora più insidioso. Le risposte emergenziali non bastano”.
Occorre anzitutto operare sul piano della prevenzione “investendo su contrasto alla povertà, formazione al lavoro, costruzione di relazioni sociali”.
Importante abbassare la “durata media della condizione di homelessliness dei giovani, mediamente un anno e mezzo”, e “ragionare con chi opera ogni giorno sul campo per rendere più efficaci i percorsi di accompagnamento in uscita”.
“Prostitute”, “cattive madri”: è lo stigma che molte donne senza dimora avvertono su di sé a renderne più difficile la richiesta di aiuto.
Uso di droghe, alcol, abusi o abbandoni familiari, disturbi mentali sono i fattori che determinano la rottura del legame con la famiglia d’origine o acquisita, un trauma al quale si aggiunge per le madri la ferita non cicatrizzabile della separazione dai figli.
Cristina Avonto, presidente di Fiopsd – 110 realtà tra Caritas diocesane, Comuni, enti religiosi, cooperative sociali, l’associazione Emmaus, la Fondazione Arca – è convinta che per queste donne servano “servizi specifici, contesti protetti con una presa in carico, anche specialistica, a 360°”.
Giovani sulla strada: da dove vengono e perché
Per quanto riguarda i giovani, gli homeless tra i 18 e i 25 anni sono “ex minori stranieri non accompagnati; giovani che hanno vissuto il fallimento di un’esperienza di adozione o di un percorso in comunità, o che decidono di lasciare gli appartamenti nei quali sono stati collocati dopo l’uscita, al raggiungimento della maggiore età, dalle comunità per minori; ragazzi che si allontanano volontariamente da contesti familiari problematici; giovani che hanno intrapreso percorsi di devianza o si pongono ai margini per una scelta di tipo ‘politico’”.
Ragazzi quasi sempre con bassi livelli di istruzione e che, spiega Avonto, non è bene inserire in strutture collettive a bassa soglia perché, “soprattutto i più giovani, ancora in piena adolescenza, rischierebbero di sviluppare meccanismi imitativi o di adattamento all’esclusione sociale”.
Occorrono invece percorsi specifici che facciano leva sulle loro risorse di autonomia, protagonismo e capacità di progettazione di vita.
Meglio, allora, inserirli in situazioni simil-familiari all’interno di piccoli alloggi da condividere con coetanei e con la presenza di una forte figura di riferimento, fulcro di una rete relazionale di sostegno.
Una sorta di Housing first (esperienza nata negli anni ’90 negli Usa e approdata nel 2014 in Italia che prevede l’inserimento di piccoli gruppi di homeless in appartamenti per favorirne gradualmente autonomia e integrazione) su misura.
Nel nostro Paese sono ad oggi 500 le persone accolte in piccoli alloggi, spiega Avonto, “ricavati da patrimoni immobiliari pubblici non utilizzati, o messi a disposizione per lo più a titolo gratuito da curie diocesane o enti religiosi, oppure da privati a canone calmierato, con la garanzia del nostro network sul pagamento degli affitti e sui servizi di accompagnamento. Un progetto partito dal basso, che coinvolge 53 dei nostri enti, privo di regole predefinite e nel quale la persona è protagonista di un percorso di autonomia e recupero di identità e dignità che prevede anche la possibilità di trovare un lavoro per contribuire alle spese di quella che potrebbe diventare in modo permanente la sua casa”.
Nei giorni scorsi il ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha destinato 100 milioni al finanziamento di progetti di Housing First.
A firmare l’11 giugno il protocollo d’intesa con la Fiopsd al Taormina Film Fest – dove è stata proiettata in anteprima la pellicola di Richard Gere “Time out of Mind” alla presenza dell’attore americano, e lanciata ufficialmente la campagna #HomelessZero – il titolare del ministero Giuliano Poletti e la Avonto che afferma: “E’ un segnale importante che agevolerà il nostro lavoro. Ora dovremo vederlo in azione, ma le premesse ci sono tutte”.