Picconate alla Legge 40. Un altro passo verso l’eugenetica di massa
Due fatti emergono dall’ultima sentenza della Corte Costituzionale: è possibile, in determinate circostanze, la selezione eugenetica degli embrioni; permane il divieto di distruzione degli stessi embrioni, quale che sia la loro condizione di salute.
Solo qualche giorno fa, l’ennesimo colpo di piccone su ciò che resta della travagliata legge 40/2004, che regola in Italia le procedure per la procreazione medicalmente assistita (Pma).
E questa volta su uno dei suoi capitoli più “sensibili”, concernente l’ambito della tutela degli embrioni.
Le decisioni della sentenza.
La Corte Costituzionale, infatti, con la sentenza 229/2015, è intervenuta sull’art. 13 (comma 3, lettera b, e 4) della legge 40, dichiarandone l’illegittimità ed aprendo così la strada alla selezione embrionale nei casi in cui essa sia finalizzata ad evitare l’impianto di embrioni affetti da gravi malattie trasmissibili, secondo le indicazioni già previste dall’art. 6 della legge 194 sull’aborto (cioè “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”).
L’articolo 13 della legge 40, infatti, sanciva il divieto di “ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti” che non avesse finalità direttamente diagnostica o terapeutica per l’embrione stesso. La medesima sentenza conferma invece il divieto – previsto dall’art. 14, comma 1 della legge 40 – di soppressione degli embrioni. Con la conseguenza pratica che gli embrioni eventualmente “selezionati”, perché affetti da gravi malattie trasmissibili, sono inevitabilmente destinati alla crioconservazione.
Le motivazioni addotte.
Secondo la sentenza della Consulta, l’illegittimità dell’art.13 (per la parte in questione) è motivata dal fatto che esso violerebbe gli articoli 3 (uguaglianza) e 32 (diritto alla salute) della Costituzione, “per contraddizione rispetto alla finalità di tutela della salute dell’embrione di cui all’articolo 1 della medesima legge 40”.
Inoltre, esso contrasterebbe anche con il diritto al rispetto della vita privata e familiare, che include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica.
La sentenza 229/2015 appare del resto in logica continuità con un’altra sentenza della Corte, la 96/2015 emanata lo scorso giugno, che aveva aperto l’accesso alla fecondazione assistita e alla diagnosi pre-impianto anche “alle coppie con gravi patologie genetiche trasmissibili al nascituro e dove sussistano le stesse condizioni che consentono l’aborto terapeutico”.
Circa il mantenimento del divieto di soppressione anche degli embrioni affetti da gravi patologie trasmissibili, i giudici della Consulta hanno addotto la ragione che la loro malformazione “non ne giustifica, sol per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani” creati in vitro. “Si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione. L’embrione, infatti, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico”.
Non tutte le vite per i giudici sono ugualmente degne
Il principio di fondo che questa sentenza suggerisce è che chi è malato fin dal concepimento non ha diritto a nascere, per lo meno non lo stesso diritto di un embrione sano. E quanto più è grave la sua malattia, tanto più sembra affievolirsi questo suo diritto.
Il vulnus eugenetico.
Due fatti emergono dunque da quest’ultima sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40: è possibile, in determinate circostanze, la selezione eugenetica degli embrioni; permane il divieto di distruzione degli stessi embrioni, quale che sia la loro condizione di salute.
Ma le decisioni giuridico-operative, inevitabilmente, finiscono per assumere anche un significato culturale e valoriale. I tecnicismi legati alla coerenza legislativa, infatti, non possono mascherare una chiara scelta di orientamento etico che la nostra società, nel suo insieme, sta assumendo: quella di un’apertura definitiva all’eugenismo.
Il principio di fondo che questa sentenza suggerisce – o meglio, ribadisce, viste le premesse giuridiche – è che chi è malato fin dal concepimento non ha diritto a nascere, per lo meno non lo stesso diritto di un embrione sano. E quanto più è grave la sua malattia, tanto più sembra affievolirsi questo suo diritto.
A ben poco vale la contraddittoria ed ipocrita conferma di questa sentenza circa il divieto di soppressione degli embrioni “difettosi”: si afferma di voler tutelare la loro dignità umana, ma si riconosce al tempo stesso di condannarli a continuare la loro vita “congelati” in una tanica, senza reali prospettive di futuro.
Si obietterà che queste possibilità sono giustificate dalla questione sempre aperta del “grado di soggettività” riconoscibile nell’embrione umano. Ma a noi sembra che “facciano il paio” con altre rivendicazioni dello stesso tipo, legate anche agli adulti, come ad esempio la battaglia giuridico-culturale per la liberalizzazione dell’eutanasia.
La logica di fondo è la medesima: la vita “ferita” o “di bassa qualità” non merita l’accoglienza e il sostegno della comunità e delle sue risorse.
“Per il suo stesso bene” dice qualcuno. Ma permane il dubbio fondato che altri interessi – ben più meschini – spingano in questa direzione l’opinione pubblica.
È proprio questa la società che vogliamo per il nostro futuro?