XIV Domenica del tempo ordinario *Domenica 5 luglio

Marco 6, 1-6

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Tutto compreso

Ogni testimone del vangelo sia consapevole che il pacchetto “tutto compreso” del suo essere include anche l’altrui rifiuto, l’ostilità e lo scetticismo, che c’è un prezzo da pagare: è il filo rosso che accomuna le letture di questa domenica. Il profeta Ezechiele viene inviato a «una razza di ribelli... a figli testardi e dal cuore indurito... a una genìa di ribelli»: incoraggiante come mandato! Il popolo ebreo nell’esilio di Babilonia s’era rassegnato e incattivito, evidentemente. Ma che cos’altro motiva questo invio, se non l’amore “testardo” di un Dio che non si rassegna all’infedeltà e volubilità del suo popolo? San Paolo snocciola cosa comporta lasciarsi afferrare dall’amore di Cristo («L’amore del Cristo, infatti, ci possiede» 2 Cor 5,14): debolezze, oltraggi, difficoltà, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo... E Gesù nella narrazione di Marco perfino si meraviglia della mancanza di fede dei suoi paesani. E noi vorremmo forse aspettarci tempi facili e grandi successi per l’evangelizzazione?

Educazione

Scetticismo, incredulità e aperta ostilità, oggi come allora, possono educarci a non porre indebitamente noi stessi al centro dell’azione. Invitano a fare quel bagno salutare di umiltà di cui il Signore dice a san Paolo nella seconda lettura: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Ci spingono a riconoscere un Dio che opera nei cuori e nella storia con traiettorie che oltrepassano ogni piano, ogni attesa; che, come detto, non si arrende anche laddove le porte sembrano sbarrate. Nella sua patria, infatti, «impose le mani a pochi malati e li guarì. E Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando». Non è l’agire di una persona rassegnata e tutto ciò incoraggia la chiesa a non far prevalere quella stagnazione, inerzia e rassegnazione pastorali così vigorosamente censurati da papa Francesco nella Evangelii Gaudium: «Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo» (n. 85). La fatica di fare pastorale e la difficoltà di testimoniare possono essere un pungolo per approfondire come e cosa si comunica; uno stimolo a mettere più fede, fervore e intelligenza; un modo per liberarci di atteggiamenti ideologici e restare aggrappati alla sola fede. E tutto questo senza fare la parte delle vittime o sentirsi in guerra contro tutto e tutti.

Perché il rifiuto

C’è un passo in più da compiere, però, oltre al mettere a fuoco come la fatica di evangelizzare possa giovare all’evangelizzatore stesso. Le domande dei paesani di Gesù in quella sinagoga mettono sotto i riflettori alcune trappole da cui ben guardarsi. Perché dove arriva la luce, le ombre si stagliano più nette; perché dove arriva Gesù anche le forze del male si danno da fare. C’è in quella sinagoga di Nazaret la chiusura mentale di chi ama le proprie idee più della stessa realtà. La mente, allora, invece di puntare dritta al cuore luminoso della verità può darsi da fare per tirar fuori ragionamenti pretestuosi. C’è la pigrizia di restare incollati a modi di giudicare le persone stando bloccati nel passato, come se ogni persona invece non fosse sempre apertura al nuovo ed all’inedito. E poi va detto che cambiare idea ed atteggiamento sulle persone costa energia: è più comodo stare fermi, non mettersi in discussione. In quella sinagoga emerge anche un po’ di invidia sprezzante, in quel bollare Gesù come «il falegname, il figlio di Maria», dato che per gli ebrei una persona andava presentata con la citazione del nome del padre. Insomma un modo neanche tanto velato di accusarlo di essere figlio di una ragazza madre, senza titoli di studio né qualifiche prestigiose. C’è il tentativo di rinchiudere il mistero di Dio nell’angusto spazio delle proprie aspettative ed immagini distorte.

Missionario

Un missionario, pieno di zelo, parte per un paese dove è difficile evangelizzare e ha in cuore il grande desiderio di cambiare la vita di molti. Dopo qualche anno questo è il suo commento: «Beh, se con la mia opera potessi convertirne almeno un gruppetto, visto che molti non ascoltano né credono...». Dopo qualche altro anno, fiaccato dalle delusioni: «Mi basterebbe conquistarne alla fede uno, uno solo!». Quando ormai le forze declinano e la morte si avvicina, ecco la sua conclusione: «Ho capito che in mezzo alle prove e agli insuccessi ho continuato a predicare alla fin fine per riuscire a conquistare al Signore un’anima soltanto. La mia!» Di primo acchito il raccontino potrebbe anche far pensare a triste disillusione, a mesta rassegnazione. Andando oltre mi chiedo: senza temibili prove e innumerevoli fatiche san Paolo sarebbe stato il gigantesco missionario che è stato? Lo stesso Gesù, senza il sapore amaro della porta sbattuta in faccia a Nazaret, avrebbe avuto lo stesso slancio “ostinato” nel cercare la pecorella smarrita? Poco prima di questa visita apparentemente infruttuosa Gesù aveva raccontato la parabola del buon seminatore, il quale semina non solo sulla buona terra, ma anche sulla strada, sulle pietre, tra le spine. La santa ostinazione dell’amore!

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