VI Domenica di Pasqua *Domenica 1 maggio 2016
Giovanni 14, 23-29
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
Se
Ci sono «se» che sono dei ricatti, che impongono delle condizioni: non è il caso del «se» che apre la pagina del vangelo di oggi. È un «se» che stabilisce una equivalenza: osservi per davvero la sua parola se e quando e in quanto lo ami. Custodire l’alleanza con Gesù e immergersi nel senso profondo del suo insegnamento è possibile in modo autentico solo a partire dall’amore. L’amore è la causa e il fine; l’obbedienza è una conseguenza... e non viceversa. «Osservare la sua parola» è ben più di mettere in pratica una serie di precetti: è “tuffarsi” e assorbire il modo di pensare, di essere, di amare del Cristo fino a esserne trasformati... altro che osservare delle regole. Infatti dietro al termine «parola» sta un vocabolo greco densissimo, molto caro all’evangelista Giovanni – logos – che indica anche la ragione e il pensiero, il signi- ficato e il senso, la relazione e la connes-sione. Il cielo in una stanza recita il titolo di una famosa canzone: dentro la stanza del cuore, nel profondo della nostra coscienza Dio – l’Immenso senza confini – abita per mezzo di un Maestro interiore che dischiude e rende presenti i doni meravigliosi di Cristo. Tempo ed eternità, umano e divino, terrestre e celeste si toccano e incontrano dove l’amore è autentico, dove soffia lo Spirito santo.
Ospite dolce dell’anima
E questa esperienza va vissuta in prima persona, non basta sentirla raccontare o spiegare da altri: ore e ore di incontri, catechesi, esegesi, teologia valgono a ben poco (e qualche volta nella vita pastorale si vive questa frustrazione) se la persona non si lascia coinvolgere ed avvolgere, convocare e provocare da Colui che la tradizione chiama «luce dei cuori, consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo». Che cosa opera lo Spirito santo paraclito? Insegna e ricorda non come si ricordano le tabelline faticosamente apprese a scuola: rende viva, presente e trasformante la parola del Signore Gesù. Come sappiamo c’è ricordo e ricordo: vedere una foto di un remoto passato; tenere fra le mani la “reliquia”, il ricordo di una esperienza importante e dentro qualcosa si scalda e si muove; ed infine quel ricordare che annulla i confini di tempo e spazio, che ti fa dimenticare ogni cosa e tu sei lì che rivivi e rivedi, reso una cosa sola con un ricordo che non è più tale, che è presenza palpitante. È chiaro che lo Spirito in noi “lavora” in quest’ultimo modo, in maniera del tutto particolare quando nella liturgia ci nutriamo dei sacramenti.
Orfani, mai
«Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore». Quale timore, quale turbamento? Lo si comprende dalle parole che seguono nel brano. Dal momento in cui, partoriti dal grembo di nostra madre, è stato tagliato il cordone ombelicale, annidata da qualche parte più o meno lontana e accessibile in noi sta la paura dell’abbandono, nata dal trauma di non essere più una cosa sola, un unico essere con il corpo della madre. E ci ritroviamo con l’inclinazione persistente ad aggrapparci, abbarbicarci e attaccarci a persone e situazioni, a volte oggetti e situazioni, per reggere questo peso, l’assenza della madre. La parola di Gesù ai suoi coglie questo umanissimo sentire: il timore e il turbamento dei discepoli di ritrovarsi senza il Maestro. La pace che io metto a disposizione, dice il Signore, è la certezza che non sei mai solo e abbandonato: vale per gli apostoli, vale per noi. Orfani di cielo non si è mai, in realtà, proprio mai: se l’ombelico è la ferita del distacco dalla madre, lo Spirito santo è comunione d’amore, forza che vince la sensazione di vivere sotto un cielo vuoto, senza una vera casa, senza un approdo, come naufraghi alla deriva. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace»: è molto più dell’assenza di conflitti, non è una sorta di patteggiamento con la vita per cui si vive senza slanci, a bassa quota, per evitare di star male se sogni e grandi desideri venissero sconfessati. Questa è la pace “del mondo”: accontentarsi, attutire i colpi, proteggersi, rifuggire dal rischio dei grandi ideali... in fondo la nostra epoca è il trionfo delle assicurazioni! Si mettono le mani avanti per tutto e per tutti perché si paventano problemi e guai; si vive protesi a tenere tutto sotto controllo. La pace di Cristo ha mani, piedi e costato ferito: è il coraggio e il rischio di amare; è lo slancio di volare tenuti su dal vento potente che la tradizione cristiana chiama Spirito santo.
Parola schietta, ascolto umile
La prima lettura dagli Atti degli apostoli si apre con una scena forte: «Paolo e Barnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro», cioè contro coloro che sostenevano la necessità della circoncisione per essere buoni discepoli del Cristo. Verbi e avverbio dipingono uno scontro netto e aperto: il camminare assieme della chiesa, la sinodalità, è anche questo. Poi la preghiera e la fiducia nello Spirito santo, grande regista della vita della chiesa, trasformeranno tutto ciò in una comunione più ricca e meditata. Unità di intenti non vuol dire omologazione; schiettezza non vuol dire polemica... se c’è spazio per lo Spirito. Non sempre negli ambienti di chiesa si ha questa franchezza: si dice e non dice oppure si trasforma subito la diversità di idee in referendum secco pro o contro di sé. Ha colpito non solo me quanto il papa ha detto all’inizio dei lavori del primo sinodo sulla famiglia: «Una condizione generale di base è questa: parlare chiaro. Nessuno dica: questo non si può dire; penserà di me così o così... Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresia. Dopo l’ultimo concistoro (febbraio 2014), nel quale si è parlato della famiglia, un cardinale mi ha scritto dicendo: peccato che alcuni cardinali non hanno avuto il coraggio di dire alcune cose per rispetto del papa, ritenendo forse che il papa pensasse qualcosa di diverso. Questo non va bene, questo non è sinodalità, perché bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità. Per questo vi domando, per favore, questi atteggiamenti di fratelli nel Signore: parlare con parresia e ascoltare con umiltà».