Torneremo in sella?
In fondo al tunnel si vede la luce ma le mie pupille, dilatate dalla permanenza nell'oscurità, ne sono disturbate più che sollevate.
L'ultimo ricordo che ho della luce è di un fine settimana vissuto, come tanti altri, in sella alla mia bici da corsa in compagnia dei miei compagni di pedalate. Faccio dieci-dodicimila chilometri l'anno ma il 2020 era iniziato con la prospettiva di superare alla grande quella soglia. Ho compiuto quarant'anni e mi sentivo in forma come mai prima d'ora. In febbraio avevo cominciato a “salire di giri” percorrendo il perimetro del lago di Garda e spingendomi tra le amate montagne della Lessinia e delle valli del Chiampo e dell'Agno. Ero pronto per “esplodere” con l'arrivo della primavera, la stagione migliore per le uscite lunghe. Fa fresco, prati e alberi sono in fiore, la vita rinasce, mi sento pieno di energia, parte di una natura e di paesaggi meravigliosi che in pochi – mi sono reso conto – conoscono.
Quell'ultimo weekend di bici, invece, sono rimasto sui colli Euganei, affrontando un tracciato comunque impegnativo. Il lockdown era nell'aria, anzi praticamente certo. Atteso ma, come tutte le cose indesiderate, arrivato fin troppo precipitosamente. Il gruppo di amici era quasi al completo, un fatto raro che già di per sé rendeva l'idea dell'eccezionalità, anzi della solennità, del momento. Ho continuato a pedalare anche dopo aver salutato gli altri e nonostante le gambe mi facessero un male cane. Sono salito nuovamente sul monte della Madonna per un'ultima Ave Maria nella chiesa dell'eremo, ma non ricordo se l'ho recitata con convinzione o disperazione.
Ho rimpianto di essere uscito con poche barrette energetiche e senza soldi, altrimenti avrei telefonato a mia moglie dicendole di non aspettarmi per pranzo, ché sarei tornato al tramonto, non sapendo quando avrei potuto dedicarmi ancora alla mia passione.
Poi, la chiusura di tutto; lo sforzo di “seppellire” mentalmente la bici e abituare il mio corpo al repentino calo di endorfine, senza cercare un surrogato in cibi grassi e iperzuccherati; e lo smart working, col sottofondo continuo della sega circolare e del martello dell'unico abitante del quartiere che, per ingannare il tempo, ha messo su una falegnameria tra garage e giardino: ovviamente è il mio inquilino del piano di sotto.
Lavorare mi ha evitato di soccombere al tedio, anche perché, per fortuna, nessuna persona cara mi ha dato preoccupazione venendo contagiata. Per settimane ho vissuto in una bolla di anestetico, fino a quando, qualche giorno fa, la prospettiva della ripartenza, con i suoi dibattiti carichi di incertezze, non ha ricominciato a scuotermi. Ma, come ho detto, è una luce quasi fastidiosa, non permette di distinguere nessun contorno, porta più incognite che risposte. Si parla di crisi economica senza precedenti, stamattina ho letto addirittura di “carestie di portata biblica”: tragedie che, appunto, sono infinitamente più grandi di me; spero di non subirle sulla mia pelle ma, nel malaugurato caso, non potrò che adeguarmi. Per questo l'unica cosa che davvero mi interessa sapere della cosiddetta fase 2 è se potrò rimettermi subito in sella – insieme, mi auguro, a chi è stato disarcionato per davvero: il solo “problema” che, nel mio piccolo, so di poter controllare in questo caotico frangente in cui si fa la storia.