Parole da mangiare
«In tavola quando si mangia non mettiamo soltanto dei cibi, più o meno gustosi e ricchi di nutrimento: mettiamo in gioco il nostro essere impasto e trama + ordito di relazioni. Io, voi: un fascio di relazioni a cui il dono della parola dà amalgama, concretezza e corpo». È un passaggio della riflessione di don Raffaele Gobbi, parroco di Tencarola e commentatore del Vangelo nella Difesa. «Noi a tavola con Lui... – continua – noi a volte “esuli” e/o in fuga rispetto al nostro vero essere figli di Dio e tuttavia in cammino verso... il banchetto in cui c’è posto per tutti». (In foto, particolare dell'opera Emmaus di David Pintor esposta alla rassegna internazionale di illustrazione "A tavola" in corso al Museo diocesano do Padova).
In tavola quando si mangia non mettiamo soltanto dei cibi, più o meno gustosi e ricchi di nutrimento: mettiamo in gioco il nostro essere impasto e trama + ordito di relazioni. Per usare un’immagine un po’ sbarazzina, come un buon pasticcio che il cuoco sapiente prepara fondendo e confondendo con arte elementi base diversi.
Io, voi: un fascio di relazioni a cui il dono della parola dà amalgama, concretezza e corpo.
E chi per vocazione passa buona parte del pasto, se non tutto, ascoltando la lettura di un testo e/o in silenzio, apparentemente senza avere nessuno con cui interloquire? Anche qui a ben pensarci il primato è della relazione e della parola, stavolta però Parola con la maiuscola: il monaco di clausura mangia tendendo l’orecchio alla Parola di Dio contenuta nella Sacra scrittura. Ricorda che «l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,13).
Ogni boccone gustato con calma è colloquio con Dio, allora.
C’è un modo egoistico, disordinato e compulsivo di mangiare: la tradizione lo identifica come vizio della gola. Una delle sue forme è l’ingurgitare cibo in fretta, con avidità, in modo smodato e solitario: in ballo non c’è soltanto il rischio per la salute, il mettere le basi per una pessima digestione. Così divorando si perde un aspetto meraviglioso e irrinunciabile del proprio essere: siamo persone chiamata e aperte alla relazione e al dono.
Esistiamo per creare e stare in comunione, con le altre persone, con il cosmo, con Dio: se prima del pasto è ottima cosa pregare benedicendo, non è per devoto sentimentalismo ma per essere consapevoli di tutto ciò!
Sul vizio della gola che fa deragliare dalla propria vocazione la bibbia narra dell’impulsivo Esaù che per avidità di un piatto di lenticchie si giocò la primogenitura (cfr Genesi 25): «Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra; Esaù arrivò dalla campagna ed era sfinito. Disse a Giacobbe: Lasciami mangiare un po’ di questa minestra rossa, perché io sono sfinito. Per questo fu chiamato Edom. Giacobbe disse: Vendimi subito la tua primogenitura. Rispose Esaù: Ecco, sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?
A una tavola ben imbandita da qualcuno che ci vuole profondamente bene possiamo fare esperienza di ritrovare noi stessi come esseri che amano e sono amati.
Ne Il pane di ieri Enzo Bianchi lo spiega in modo veramente bello: «Il cibo cucinato e condiviso – il pasto – è luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale. Sì, perché nella preparazione, nella condivisione e nell’assunzione del cibo si celebra il mistero della vita e chi ne è cosciente sa scorgere nel cibo pronto sulla tavola il culmine di una serie di atti di amore compiuti da parte di chi il cibo lo ha cucinato e offerto come dono all’amico. Far da mangiare per una persona amata, prepararle un pranzo o una cena è il modo più concreto per dirgli: Ti amo, perciò voglio che tu viva bene, nella gioia!».
È la “lezione” del film Il pranzo di Babette, vicenda di una donna – un tempo provetta chef a Parigi, poi esule in un remoto paesino danese non certo di mentalità aperta – che inaspettatamente riceve una cospicua eredità e interamente la consuma per uno strepitoso pranzo che scioglie rigidità e cura ferite relazionali, che riconcilia lei stessa con il suo passato... lasciandola alla fine del pranzo ancora povera, come prima di ricevere l’eredità, ma felice. Non più straniera tollerata ma persona accolta.
A tavola la fraternità è, infatti, universale.
Alle querce di Mamre (cfr Genesi 18) si narra di come Abramo abbia incontrato Dio stesso nell’ospitalità offerta con grande generosità a tre forestieri di passaggio. Dio esattamente al termine del pasto annuncia ad Abramo l’imminente paternità grazie alla quale si compirà la sua vocazione: «Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abramo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò».
Viene alla mente quanto questo giornale, La Difesa del popolo, racconta a proposito di accoglienza e conoscenza di profughi, poveri, emarginati attraverso momenti conviviali nelle nostre comunità.
Nei giorni della santa settimana, specie nell’eucaristia in coena Domini, ci siamo resi conto di essere invitati (senza merito!), a stare a tavola con Gesù che offre la sua stessa vita.
Noi a tavola con Lui… noi, a volte “esuli” e/o in fuga rispetto al nostro vero essere di figli di Dio e tuttavia in cammino verso il giorno dei giorni, quel paradiso che la bibbia descrive come un bellissimo banchetto in cui c’è posto per tutti, senza esclusioni.
«Preparerà il Signore degli eserciti
per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande,
un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
Egli strapperà su questo monte
il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre distesa su tutte le nazioni.
Eliminerà la morte per sempre.
Il Signore Dio asciugherà le lacrime
su ogni volto» (Is 25,6-8).