Il germe della violenza va vinto nel nostro cuore
Quanto è avvenuto nei giorni scorsi a Roma ha in sé qualcosa di allucinante e di inquietante. Due giovani torturano e ammazzano un amico dopo un festino a base di droga e di alcol e lo fanno “per vedere l’effetto che fa”.
«Volevamo uccidere qualcuno. Così siamo usciti in macchina sperando di incontrare qualcuno. Poi abbiamo pensato a Luca che il mio amico conosceva».
Parole di Manuel Foffo, 30 anni, che confessa davanti ai carabinieri e al pm Francesco Scavo di aver assassinato assieme a Marco Prato il 23enne Luca Varani, coinvolto in quella drammatica vicenda con la scusa di prendere parte a un festino.
L’episodio ci impone due considerazioni. La prima, com’è ovvio, riguarda il mondo della droga e delle persone che si drogano.
In Italia, come dappertutto, la droga scorre a fiumi. Non è possibile calcolare neppure approssimativamente quante sono le droghe e quante le persone che ne fanno più o meno abitualmente uso. Un dato è certo: quello della droga è un campo smisurato e indefinibile, tante e poi tante sono le sostanze vegetali e chimiche, antiche e nuovissime, che vengono spacciate, fumate, fiutate, ingerite, iniettate direttamente nel sangue.
Dagli stupefacenti classici (hashish, oppio, morfina, eroina, cocaina) alle nuove droghe, la chimica sintetica allarga ogni giorno i confini, inventa nuove sostanze e mescolanze, offre la possibilità di farsi le droghe anche in casa e con poca spesa.
Fino a qualche tempo fa la droga, nel suo viaggio da Oriente a Occidente, dall’America Latina all’Europa, si serviva del nostro paese come di un’importante stazione di transito. Ora ne ha fatto un mercato di consumo. E la situazione è destinata a peggiorare.
Anzitutto perché è diminuita l’influenza educativa della famiglia, della scuola, della chiesa. In secondo luogo perché la società diventa sempre più indifferente, distratta e indulgente. E infine perché procurarsi la droga non è molto difficile e a volte nemmeno costoso.
L’hashish, per esempio, chiamato comunemente “la droga dei poveri”, è oggi alla portata di tutti. Anche sull’onda dell’idea che non sia dannoso, mentre invece fa da ponte, è un rito iniziatico per passare a droghe più pesanti.
La seconda considerazione che il delitto di Roma ci impone parte da una domanda: quei giovani che hanno così barbaramente torturato e ammazzato un amico sono dei malati o dei criminali?
Molto probabilmente né solo malati, né solo criminali. Piuttosto dei giovani allo sbando in un mondo devastato e lacerato dalla violenza. Che va dalla pretesa di imporre a tutti e a ogni costo un proprio vero o presunto diritto, alla volontà di appropriarsi indebitamente delle cose o del denaro altrui, alla sopraffazione pura e semplice del più debole, sia esso un bambino, una donna, un migrante, un povero. Per non parlare di quella forma di violenza sistematica che è la guerra.
Fin troppo facile condannare la violenza da qualunque parte provenga: denunciare guerre, terrorismo, stragi, omicidi, infanticidi, femminicidi, ecc. Dimenticando che questa è solo la forma esterna ed estrema della violenza.
Esiste anche una violenza più subdola, che germoglia nel cuore e si nasconde dentro al costume, alle pratiche quotidiane, ma più spesso dietro a comodi paraventi come l’indifferenza, l’anonimato, la noia, la mancanza di lavoro, l’assenza di valori, di relazione, di comunicazione.
Vi è una violenza che minaccia e una violenza che seduce. Tutte e due sono pericolose. Ma la violenza che seduce è la peggiore.
Non si tratta ovviamente di giustificare una forma di violenza rispetto a un’altra. Il problema è come imparare a individuare il male ovunque si nasconde. E se possibile estirparlo, o quanto meno contenerlo, controllarlo, limitarne i danni.
Ne consegue una riflessione etico-teologica che potrebbe apparire assai sgradevole in quanto contrasta con le visioni ottimistiche, palingenetiche, del progresso attualmente in voga. E in base alle quali il male non sarebbe così profondo, originario – la teologia parla di peccato originale – ma un prodotto storico, evolutivo, un riflesso della cultura e dell’ambiente in cui viviamo.
Si deve allora concludere che la violenza appartiene alla nostra condizione umana come qualcosa che lo spirito non riesce a dominare e con cui rimane in uno stato di perenne conflitto, tentati come siamo ora di escluderla, rifugiandoci in uno stato di impossibile innocenza, ora di abbandonarci al suo arbitrio?
La lezione teologica a me pare un’altra. Il germe della violenza è dentro di noi, è nel nostro cuore, ed è qui, oltre che in una serie di strutture ingiuste o inadeguate, che deve essere primariamente combattuto e vinto.
Consapevoli e certi, come credenti, che Dio con la grazia della redenzione, che presto celebreremo nella Pasqua, è al nostro fianco. Perché come ci assicura san Paolo: «Laddove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore».