Da Virginia Raggi a Hillary Clinton. Non dire la verità è sempre una bugia?
Quotidiani e telegiornali hanno dato recentemente ampio risalto a due episodi che hanno colpito profondamente l’opinione pubblica. Il primo ha come protagonista Virginia Raggi e l’inchiesta giudiziaria riguardante un assessore della sua giunta appena costituita. Il secondo ha come protagonista Hillary Clinton, candidata alla presidenza degli Stati Uniti, e le sue condizioni di salute. Due episodi molto diversi tra loro che sollevano però una stessa domanda: non dire la verità è sempre una menzogna, una bugia?
La questione se dire o non dire la verità è piuttosto complessa, soprattutto quando dal piano astratto dei principi si scende a quello concreto della vita e della cronaca quotidiana.
Precisiamo subito in via preliminare che è fuori discussione il diritto dei cittadini di conoscere la verità da parte di chi li amministra e li rappresenta. Così come è fuori discussione il dovere di amministratori e rappresentanti dei cittadini di dire sempre la verità. Il motivo è che altrimenti viene meno quel patto di fiducia che è alla base di ogni istituzione.
Ne deriva come corollario il rifiuto di ogni bugia, di ogni falsa informazione, come anche di ogni informazione reticente, che miri a indurre in errore i cittadini. Ciò che conta è informare sempre e correttamente i cittadini, in modo che tutti possano conoscere e valutare costi e benefici delle scelte che hanno fatto o stanno per fare.
L’applicazione di questo principio non è tuttavia facile.
Gli ostacoli sono rilevanti e derivano il più delle volte dalla possibilità di reazioni emotive che possono compromettere la fiducia o determinare il blocco della volontà di collaborazione dei cittadini con chi li amministra o li rappresenta.
Non è raro il caso che la rivelazione di determinate notizie o dati, siano essi personali (si pensi alla Clinton), o giudiziari (si pensi alla Raggi), determini conseguenze impreviste o il venir meno progressivo della fiducia. Questo può verificarsi anche quando si è di fronte a un’esplicita richiesta dei cittadini a essere informati, in quanto non è sempre facile capire se essi vogliano realmente sapere o non siano piuttosto mossi dal desiderio di ricevere risposte positive e rassicuranti.
In ogni caso la preoccupazione fondamentale che deve ispirare l’azione informativa di amministratori e politici non può che essere il perseguimento del bene comune, l’interesse “globale” dei cittadini.
Per cui diventa essenziale, prima di decidere, valutare bene le conseguenze positive e negative, a breve e lungo termine, per sé e per gli altri, di ogni azione informativa. E non soltanto in riferimento alle reazioni più o meno emotive dei simpatizzanti, ma anche degli oppositori. Impresa non facile, ma ineludibile, se si vuole arrivare a discernere se dire o meno la verità e come comunicarla.
Diciamo che in linea di principio dire la verità è sempre un obbligo, un dovere morale. Viceversa non dire la verità non si configura sempre come una menzogna, una bugia.
Decisiva al riguardo è la distinzione tra atteggiamento e comportamento.
Nessuno mette in dubbio la buona fede di Virginia Raggi o di Hillary Clinton quando hanno deciso di comportarsi come si sono comportate. In discussione non è il loro atteggiamento, ma il loro comportamento. Essendo infatti per definizione l’atteggiamento un atto interiore, frutto di una scelta, di una decisione che appartiene alla coscienza, nessuno ha elementi sufficienti per controllare e verificare se si tratta di un atteggiamento moralmente buono o cattivo. È moralmente buono se è imparziale, disinteressato, altruistico. È moralmente cattivo, se è parziale, interessato, egoistico.
Il problema è che si dà il caso di atteggiamenti frutto di scelte, decisioni, moralmente buone, che s’incarnano e si traducono in comportamenti, azioni, moralmente erronee, sbagliate. Si pensi alla bugia di Pietro che giura e spergiura di non conoscere Gesù. Questo per chiarire come in determinate circostanze dire la verità può essere sbagliato – si pensi al segreto professionale o sacramentale – e non dire la verità può non essere una bugia, una menzogna.
Chi per proteggere gli ebrei che nascondeva in casa diceva alle Ss tedesche che in casa non c’era nessuno, affermava chiaramente il falso. Quella falsità però non era una bugia. Era in gioco la verità, ma anche la vita di un innocente, e nel conflitto di valori si faceva prevalere il valore più fondamentale.
Nel caso invece di Virginia Raggi non dire la verità si configura come una vera e propria bugia.
Come mai? Il fatto è che il silenzio prima, la reticenza poi, del sindaco di Roma aveva lo scopo di difendere un bene meno fondamentale, privato, la buona fama di un assessore, fino a prova contraria innocente, a scapito di un bene pubblico, più fondamentale e urgente, come la costituzione e il buon funzionamento di una giunta efficiente, all’altezza dei problemi di Roma.
Diverso il caso di Hillary Clinton.
Non essendo stata direttamente interpellata sulla malattia, non si è verificato alcun conflitto di valori. Hillary Clinton si è semplicemente attenuta alla legge sulla privacy, che non impone a nessuno, neanche a un candidato alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, di rivelare al mondo intero l’esistenza di una malattia non pericolosa e per di più curabile come la polmonite.