«Per i sacerdoti il futuro è la condivisione»
Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo di Ravenna-Cervia: «Si sta diffondendo soprattutto tra i preti delle due ultime generazioni l'idea che il ministero sacerdotale debba essere condiviso, e non più esercitato da soli». Ma lamenta che in Italia «una formazione permanente in chiave relazionale per i preti è ancora minoritaria». I "momenti difficili", il rischio della solitudine e l'adolescenza prolungata.
«Si sta diffondendo soprattutto tra i preti delle due ultime generazioni l’idea che il ministero sacerdotale debba essere condiviso, e non più esercitato da soli”. Parola di mons. Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo di Ravenna-Cervia, che nella terza giornata dell’assemblea straordinaria della Cei, in corso ad Assisi, è intervenuto in aula. Condividere il pasto, trovarsi insieme una volta al giorno per la preghiera, passare il lunedì mattina insieme: sono alcuni esempi della «collaborazione molto intensa» in atto tra i preti, primi segni di una inversione di tendenza in senso «relazionale» – già auspicata nell’identikit del sacerdote delineato dal card. Angelo Bagnasco nella prolusione – del modello di prete finora prevalente in Italia: il parroco al centro, con la sua parrocchia.
A che punto siamo con la formazione dei preti? E da quali proposte concrete si può partire per la “riforma” auspicata dai vescovi?
«Se ne parla in tutti gli incontri: nell’instrumentum laboris di questa assemblea, nei lavori di gruppo… Direi che in Italia, soprattutto nella prima fase della formazione, si fa ormai una attenta opera di valutazione, di discernimento, di approfondimento anche della maturità umana dei candidati al sacerdozio, senza separarla ovviamente dalla dimensione spirituale. Anche dopo la valutazione iniziale c‘è un periodo di accompagnamento, per esempio per i preti giovani, che ormai si fa quasi dappertutto: si tratta di incontri periodici dove i giovani sacerdoti mettono in comune le esperienze, le difficoltà, i problemi. Spesso è presente il vescovo, altrimenti un incaricato della diocesi per i preti giovani. In questi incontri non si fa formazione teorica, ma approfondimento della vita personale. Il problema viene dopo: per le altre età, c’è ancora molto da fare».
Quando comincia l’età critica, per un sacerdote?
«Con una battuta potrei dire che per un prete l’età critica è dai 18 ai 75 anni! Non esistono età critiche, ci sono passaggi difficili. L’ingresso nel ministero è il classico momento difficile: la realtà pastorale è molto esigente, soprattutto nei confronti dei preti giovani a cui richiede un vero e proprio ribaltamento della vita, prima caratterizzata dalla preghiera e dallo studio e poi subito preda di un’attività frenetica. Altro momento delicato è quando il prete assume compiti importanti: gli adempimenti burocratici sono molto pesanti e portano via spazio all’ascolto e all’accompagnamento delle persone, che possono provocare anche una crisi nella vita del prete».
C’è poi la solitudine con cui bisogna fare i conti…
«In realtà la solitudine del prete è un problema di sempre. Oggi siamo ancora un po’ incerti su questo, ma si sta diffondendo soprattutto tra i preti delle due ultime generazioni l’idea che il ministero sacerdotale debba essere condiviso, e non più esercitato da soli. Noi in Italia veniamo da una tradizione di senso esattamente opposto: con il parroco, da solo, al centro della sua parrocchia. Molte diocesi hanno già introdotto la regola dei nove anni di permanenza in una parrocchia, per i parroci, e stanno sorgendo esempi di comunità presbiterali e forme di collaborazione molto intensa, come per esempio condividere il pasto, trovarsi insieme una volta al giorno per la preghiera, passare il lunedì mattina insieme… Si va verso una maggiore condivisione e sostegno reciproco tra i sacerdoti, anche attraverso la progettazione comune della pastorale».
Questo modello di formazione permanente “relazionale” trova convergenze qui ad Assisi?
«Tutti vedono e apprezzano le potenzialità di questo modello, ma è molto difficile cambiare la situazione italiana, impostata un tutt’altro modo: una formazione permanente in chiave relazionale per i preti è ancora minoritaria. Solo i religiosi sono abituati ad uno stile di vita di questo tipo».
È dai seminari che bisogna partire per provare ad invertire la tendenza?
«Per i preti bisogna pensare a una forma di vita comune senza imitare i religiosi, instaurando forme di condivisione che permettano ai sacerdoti, in qualche modo, di camminare insieme. Penso, ad esempio, ai parroci di uno stesso paese che abitano insieme o al modello delle unità pastorali, dove due o tre parrocchie si uniscono e i rispettivi sacerdoti le servono tutti insieme: uno di loro è il moderatore, ma è una comunità alla pari. Alla vita comune non tutti sono preparati: questo richiede che già nei seminari ci si prepari alle dinamiche della vita comune. Succede anche nel matrimonio: prima ci si sposa, e poi ci si accorge che la vita all’interno del matrimonio è diversa».
Nei seminari, secondo lei, bisogna “potenziare” gli aiuti, per prevenire le fragilità o affrontare i momenti di difficoltà o di disagio?
«Ormai i nostri seminari sono attrezzati in questo senso: in molti c’è la figura dello psicologo, interna o esterna, e il periodo di propedeutica più diffuso dura quasi il doppio di prima, uno o due anni, durante i quali si fa una seria e attenta valutazione delle capacità di ciascun candidato al sacerdozio e una valutazione essenziale della sua maturità o immaturità. Tra i futuri preti ci sono anche adolescenti dall’adolescenza interminabile, che ancora a 30 anni si chiedono cosa faranno da grandi… In questa fase della formazione, vengono utilizzati tutti gli ausilii delle scienze, dopo un po’ meno. Il futuro, a mio avviso, passa da una riforma della formazione permanente a piccoli passi: a cominciare da gruppi di preti che vivono insieme e si incontrano tra di loro, confrontandosi e facendo ricorso anche all’aiuto delle scienze umane, per aiutarsi a risolvere i problemi».