Il vescovo Antonio racconta la “sua” Etiopia
Il vescovo emerito Antonio Mattiazzo è in questi giorni a villa Immacolata, a Torreglia. Il suo è un soggiorno "forzato": il tempo di sistemare i documenti e poi ripartire per Robe, la prefettura etiope dove assieme ai capuccini sta "piantando la chiesa".
Raggiungiamo Antonio Mattiazzo, vescovo dal 1985 e guida della chiesa di Padova dal 1989 fino al luglio di quest’anno, a villa Immacolata, la casa di spiritualità diocesana. Era partito il 7 settembre alla volta dell’Etiopia, nella prefettura apostolica di Robe, per continuare a servire la sua vocazione come semplice missionario in una terra dove l’annuncio di Cristo muove in questi anni i primi passi. Una scelta che ha rimesso al centro la missione.
La sua è una vacanza “forzata”. Il visto provvisorio con cui è partito tre mesi fa è ormai scaduto. Solo nelle prossime settimane, terminati i permessi e gli incartamenti, potrà tornare in quella che ormai è casa sua. Anche dalla voce traspare una certa energica impazienza.
«Avevo già gettato uno sguardo fugace all’Etiopia durante una visita nel mese di maggio. Allora avevo esplorato parte del territorio della prefettura di Robe e la cittadina di Kofele». Ma è dopo l’estate, ormai da vescovo emerito, che inizia una nuova vita: «Sono arrivato la mattina dell’8 settembre, giorno della Natività di Maria. Ho messo la mia missione sotto la protezione della Vergine».
Trascorre i primi giorni a Kofele, nella comunità del cappuccino padre Bernardo Coccia, poi inizia a operare tra il centro e la periferia, in un territorio sconfinato: «La prefettura si estende per oltre 100 mila chilometri quadrati, un terzo dell’Italia. La presenza cristiana è incipiente. È vero che si tratta di una plantatio Ecclesiae: i cattolici non sono più di mille in mezzo a una popolazione di quattro milioni di abitanti. Il prefetto, padre Angelo Antolini, è un cappuccino delle Marche: non è vescovo perché la presenza dei cattolici è davvero esigua». Ci si trova tra la regione dei Somali, quasi totalmente musulmana, e quella di Oromia, con una forte presenza di ortodossi copti. Siamo all’Equatore, su un altopiano a quasi 2.700 metri sul livello del mare. Di giorno è caldo, ma di notte il freddo è intenso. Le piogge abbondanti regalano alla terra quella prosperità che in altre zone dell’Etiopia proprio non c’è. Vicino a Robe sono presenti alcune suore di Madre Teresa di Calcutta, a Kofele invece tre francescane missionarie di Cristo con quattro novizie etiopi: «Il venerdì celebro nella chiesa parrocchiale in lingua oromo, mentre la domenica raggiungo tre comunità per la messa, partendo dalla periferia più lontana a circa un’ora di fuoristrada dal centro». Ai fedeli oromo si sono affiancati i sidamo, appartenenti al vicino vicariato di Awasa: «Ho letto un po’ questa lingua e ho visto che potevo farcela».
È umanamente impossibile raggiungere tutti. Almeno da solo: «In una comunità che visitavo di giovedì, a 60 chilometri dalla sede principale, si è avviato un percorso per il catecumenato. Un’altra iniziativa estremamente importante che ho avviato è una scuola per catechisti il martedì mattina: ho tenuto nove lezioni e promette molto bene. Non ci sono sacerdoti, dunque bisogna affidarsi molto alla formazione dei laici».
Nulla sarebbe possibile senza la preghiera: «Ho avviato il giovedì un’ora di adorazione: attraverso la preghiera di intercessione davanti all’eucaristia riusciamo a far raggiungere l’influsso di Gesù anche ai musulmani e agli animisti». Tra le attività del vescovo Antonio anche l’assistenza ai poveri: «Ci sono situazioni molto acute. Tante volte ci troviamo impotenti di fronte a così tante povertà e miserie».