Nidi e servizi prima infanzia: con il Covid in calo posti e iscrizioni. Ma la frequenza è in rialzo

I dati Istat prendono atto dell’incidenza della pandemia: alla fine del 2020 attivi in Italia 13.542 servizi educativi per la prima infanzia, con oltre 350 mila posti (49,1% in strutture pubbliche). Diminuite iscrizioni, mesi di frequenza e ammontare delle rette pagate dalle famiglie. Tra le criticità di gestione: maggiori costi, carenza di risorse, difficoltà delle famiglie nel pagare le rette. Molte le disuguaglianze nell’accesso ai servizi

Nidi e servizi prima infanzia: con il Covid in calo posti e iscrizioni. Ma la frequenza è in rialzo

Alla fine del 2020 sono attivi in Italia 13.542 servizi educativi per la prima infanzia con oltre 350 mila posti autorizzati al funzionamento, di cui il 49,1% in strutture pubbliche. I posti sono in lieve calo (-2,9%) a causa soprattutto delle sospensioni del servizio nell’intero anno educativo 2020/2021.
Diminuiscono le iscrizioni, i mesi di frequenza dei bambini e, quindi, l’ammontare delle rette pagate dalle famiglie. Tra le criticità nella gestione dei nidi in emergenza sanitaria: maggiori costi (segnalati dal 74% dei Comuni), carenza di risorse economiche (37%), difficoltà delle famiglie nel pagare le rette (29%). Molte le misure intraprese per adattare il servizio al contesto pandemico. Questo in estrema sintesi il quadro disegnato dall’Istat nel suo report “Offerta di nidi e servizi integrativi per la prima infanzia. Anno educativo 2020-2021”.

Flessione limitata dell’offerta nel primo anno della pandemia

“I servizi educativi per la prima infanzia, così come gli altri segmenti del comparto dell’istruzione, dal 2020 hanno risentito dell’impatto della pandemia da Covid-19, che ha comportato periodi di chiusura delle strutture e interruzioni della frequenza da parte di molti bambini”, ricorda l’Istat. Al 31 dicembre 2020 sono attivi sul territorio nazionale 13.542 servizi per la prima infanzia, quasi 300 in meno rispetto all’anno precedente (-2,1%). I posti complessivi sono 350.670, di cui il 49% all’interno di strutture pubbliche, con un saldo negativo di circa 10.600 posti (-2,9%).
“Tale flessione introduce una discontinuità rispetto ai graduali incrementi degli anni precedenti, ottenuti anche con il supporto di specifici interventi di rafforzamento”, segnala l’istituto. La contrazione dell’offerta ha interessato più il settore pubblico (-4,8%) rispetto al privato (-1,1%) e sembra collegata, più che alle chiusure definitive delle strutture, alla temporanea inattività dei servizi per l’anno educativo 2020/2021, per un totale di oltre 7 mila posti (di cui il 71,5% pubblici) autorizzati al funzionamento ma non disponibili.

Il calo ha interessato meno i nidi d’infanzia (-1,4%), componente più tradizionale e principale dell’offerta (65,8%). Leggermente più consistente (-2,8%) il decremento per le sezioni primavera, che rappresentano il 19,6% dei servizi complessivi e accolgono bambini dai 24 ai 36 mesi, generalmente all’interno delle scuole d’infanzia. I servizi integrativi per la prima infanzia (spazi gioco, centri per bambini e genitori e servizi educativi in contesto domiciliare), che completano l’offerta con il 14,6% dei servizi disponibili, sono quelli che hanno fatto registrare la riduzione maggiore (-17,2%).

“Questa situazione si inserisce in un contesto di offerta già fortemente carente, nonostante i diversi piani di intervento varati e gli ingenti stanziamenti approvati, dagli effetti ancora non misurabili – afferma l’Istat -. Nonostante la lieve contrazione dell’offerta, la percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti tra 0 e due anni di età è rimasta pressoché stabile per effetto del calo delle nascite e della conseguente riduzione dei potenziali beneficiari del servizio: per il complesso dei servizi educativi si è passati dal 27,1% dell’anno educativo 2019/2020 al 27,2% del 2020/2021. Tale parametro si conferma sotto l’obiettivo definito dal Consiglio europeo di Barcellona nel 2002, da raggiungere entro il 2010, pari al 33% di copertura dei posti rispetto ai bambini”.

In media, a livello europeo sono stati fatti molti progressi. Nel 2019, già prima della pandemia, la frequenza dei servizi educativi per i bambini sotto i tre anni aveva raggiunto in media il 35,3%, ma con ampie divergenze fra gli Stati membri, molti dei quali, come l’Italia, non avevano raggiunto il target, mentre diversi Paesi si attestavano anche oltre il 50%, fino a raggiungere e superare il 65% nel caso di Olanda e Danimarca. Dopo un calo nel 2020 (32,4%), la media europea è al 36,6% nel 2021 e quella italiana al 33,4%. Seppur ancora provvisorio, questo dato indicherebbe un aumento della frequenza per i bambini sotto i tre anni che, al netto degli anticipatari alla scuola d’infanzia, porterebbe circa al 29% la frequenza dei nidi nel 2021.

Ancora molte le disuguaglianze nell’accesso ai servizi

“Favorire la frequenza del nido da parte di bambini provenienti da famiglie a basso reddito può spezzare il circolo vizioso dello svantaggio sociale e incidere positivamente sulla partecipazione al mondo del lavoro, riducendo anche il divario di genere – afferma ancora l’Istat -. In Italia resta ancora molta strada da fare per garantire un’equa accessibilità dei servizi dal punto di vista socio-economico: infatti i tassi di frequenza del nido crescono all’aumentare della fascia di reddito delle famiglie e sono decisamente più alti se la madre lavora e se i genitori hanno un titolo di studio elevato. Dal punto di vista della disponibilità dei servizi sul territorio, permangono ampissimi divari a sfavore delle famiglie residenti nel Mezzogiorno e nei Comuni più piccoli”.

Il Nord-est e il Centro Italia, alla fine del 2020, consolidano la copertura dei posti disponibili rispetto ai bambini sotto i tre anni sopra il target europeo del 33% (rispettivamente 35% e 36,1%); il Nord-ovest è sotto l’obiettivo ma non è distante (30,8%), mentre le Isole (15,9%) e il Sud (15,2%), che pur registrano un lieve miglioramento, sono ancora lontani dal target.
A livello regionale i livelli di copertura più alti si registrano in Umbria (44%), seguita da Emilia Romagna (40,7%) e Valle d’Aosta (40,6%), Toscana (37,6%) e Provincia Autonoma di Trento (37,9%). Anche il Lazio e il Friuli-Venezia Giulia dal 2019 hanno superato la soglia del 33% (rispettivamente 35,3% e 34,8%), in coda Campania e Calabria, ancora sotto il 12%.
I capoluoghi di provincia hanno in media il 34,3% di copertura, ma con ampie distanze: quelli umbri al 47% e quelli siciliani all’11,6%. Sono ben 65 le città capoluogo con valori maggiori o uguali al 33%, mentre le rimanenti 44 restano sotto il target.
I Comuni non capoluogo si attestano in media a 24,2 posti per 100 residenti sotto i tre anni (23,9% nel 2019). In termini di offerta pubblica sui posti complessivi, la maggior parte delle regioni meridionali ha una quota di posti nei servizi educativi a titolarità comunale inferiore al 50% e una spesa media dei Comuni per bambino residente ben sotto il valore nazionale. Le regioni del Centro-nord che hanno superato il 33%, invece, hanno un’offerta pubblica molto consistente e radicata e anche quando le quote di pubblico sono inferiori al 50% i livelli di spesa dei Comuni sono comunque alti, non solo per la gestione dei nidi comunali, ma anche per il convenzionamento con i servizi privati.

Consistenti gli interventi statali a supporto del nido

“Negli ultimi anni sono stati stanziati importanti fondi di diversa natura per lo sviluppo dei servizi educativi rivolti alla prima infanzia. Dalla Legge n. 65 del 2017 deriva un forte impulso al potenziamento di tali servizi come parte integrante del percorso educativo che va dalla nascita fino a sei anni. Per lo sviluppo del ‘sistema integrato di istruzione 0-6’, strumento fondamentale per la prevenzione della povertà educativa, è stato istituito un Fondo nazionale destinato a finanziare le ristrutturazioni e la messa in sicurezza edilizia, le spese di gestione e la formazione del personale. Le leggi di bilancio per il 2021 (legge n. 178/2020) e per il 2022 (legge n. 234/2021) hanno disposto inoltre un importante incremento della dotazione annuale del Fondo di solidarietà comunale, destinato allo svolgimento di alcune funzioni fondamentali in ambito sociale, tra cui gli asili nido”, ricorda l’Istat. I servizi alla prima infanzia, inoltre, sono stati inclusi nei livelli essenziali delle prestazioni, con un minimo del 33% di posti da garantire per i bambini sotto i tre anni entro il 2027. Anche il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) ha stanziato importanti risorse per l’ampliamento dei servizi educativi da 0 a sei anni.
Sul versante del sostegno economico alla domanda, dal 2017 è stato introdotto il “Bonus asilo nido”, un contributo a rimborso delle spese sostenute dalle famiglie per la frequenza del nido. Complessivamente l’importo erogato dall’Inps alle famiglie è stato di 241 milioni nel 2019, 197 milioni nel 2020 e 394 milioni di euro nel 2021. I beneficiari del “bonus asilo nido” nel 2020 sono stati 272 mila, pari al 21,1% della popolazione dei bambini sotto i tre anni. “Rispetto al 2019 si registra un calo dei percettori del contributo (quasi 18 mila in meno) e soprattutto la riduzione dei mesi di frequenza del nido – evidenzia l’Istat -. Infatti, per effetto delle chiusure dei servizi durante la pandemia e per la rinuncia delle famiglie per il timore del contagio, si riscontra un calo del numero medio di rate percepite e, quindi, dell’importo medio annuo erogato per beneficiario”.
Nel 2021 si registra una nuova crescita nell’utilizzo del contributo che porta al 24,2% la quota dei beneficiari sui residenti sotto i tre anni.

Frequenza dei nidi di nuovo quasi ai livelli pre-pandemia

La ripresa di una più regolare e continua frequenza dei nidi nel 2021 riporta il numero medio di rate percepite per beneficiario quasi al livello del 2019: 6,3 mensilità per bambino (contro 4,6 nel 2020 e 6,4 nel 2019). L’importo medio annuo recupera quindi ampiamente il calo del 2020 (1.301 euro per beneficiario nel 2021, rispetto a 725 euro nel 2020 e a 833 nel 2019), anche per effetto dell’incremento del tetto massimo erogabile. “Le risorse erogate con il bonus risentono degli squilibri esistenti nella dotazione di servizi sul territorio e pertanto risultano destinate in maggior misura dove l’offerta è più consistente – afferma l’Istat -. Di conseguenza le famiglie residenti nelle aree più svantaggiate beneficiano di minori risorse pubbliche, sia per la minore spesa dei Comuni e delle amministrazioni locali, sia per le più basse possibilità di intercettare la misura di sostegno statale”.
Negli ultimi anni i beneficiari del bonus sono aumentati in tutte le ripartizioni geografiche, mantenendo però un andamento correlato alla disponibilità di posti nei nidi. Nel 2021 la quota di bambini sotto i tre anni che percepiscono il bonus varia dal 32,0% del Centro al 16,2% del Sud. Allo stesso modo varia l’allocazione delle risorse percepite: dai 403 euro per bambino residente al Centro si passa a 391 euro al Nord-ovest, 354 al Nord-est, 229 le Isole, fino a 172 euro al Sud. Al Centro-nord i beneficiari del bonus sono in numero inferiore a quello dei posti disponibili e pertanto esistono ulteriori potenzialità di utilizzo della misura statale. Al Mezzogiorno invece i bambini che hanno percepito il bonus nel corso del 2020 sono stati leggermente al di sopra dei posti disponibili al 31 dicembre dello stesso anno, evidenziando ulteriormente il vincolo dovuto alla carenza strutturale di nidi.

Solo un calo leggero della spesa dei Comuni nell’anno dell’emergenza sanitaria

Come per i percettori del bonus asilo nido, anche per gli iscritti dei nidi comunali o privati convenzionati con i Comuni si registra un calo che è pari all’8,7% nel 2020/2021 rispetto al precedente anno educativo. Un decremento delle iscrizioni ancora più marcato (-36,3%) si riscontra per i servizi integrativi per la prima infanzia, che accolgono solo il 5% dell’utenza complessiva. Complessivamente gli iscritti nei servizi educativi per la prima infanzia finanziati dai Comuni si sono ridotti del 10,5% (quasi 21 mila in meno), attestandosi a circa 176.700 al 31.12.2020.
Nel 2020 i Comuni hanno impegnato 1 miliardo e 342 milioni di euro (-10,3% rispetto al 2019). “La contrazione interessa in misura diversa le due componenti della spesa complessiva, ovvero la quota a carico dei Comuni e la parte rimborsata dalle famiglie come pagamento delle rette. Per via della rigidità dei costi di gestione delle strutture educative, dovuta prevalentemente alle spese per il personale, la spesa a carico dei Comuni (al netto delle compartecipazioni) si è ridotta solo del 3,6%. È invece diminuita del 39,7% la quota pagata dalle famiglie, a causa dei mesi di chiusura e dei ritiri delle iscrizioni nel corso dell’anno”. Pertanto nelle casse dei Comuni, a fronte di una spesa per i servizi educativi di poco inferiore all’anno precedente, sono diminuite decisamente le entrate provenienti dalle rette (169 milioni contro i 280 dell’anno precedente). Di conseguenza la quota di spesa coperta dalla contribuzione delle famiglie passa dal 18,7% al 12,6%.

Molte criticità ma anche tante modalità di adattamento dovute al Covid-19

Una sezione aggiuntiva dell’Indagine Istat ha raccolto informazioni riguardo le criticità affrontate e le misure adottate dai Comuni durante l’anno educativo 2020/2021 per l’emergenza Covid-19. Il principale problema riscontrato dai Comuni che offrono il servizio è stato l’aumento dei costi di gestione, segnalato dal 74% dei Comuni. Questo aspetto è evidenziato soprattutto dai Comuni del Nord (l’81%), meno da quelli del Centro (60%) e del Mezzogiorno (48%). Si segnalano inoltre difficoltà legate al ritiro dei bambini iscritti (45%), al calo delle iscrizioni e alla carenza di risorse economiche (37%).
Il 29% dei Comuni ha riscontrato difficoltà da parte delle famiglie a pagare le rette. Molte anche le difficoltà organizzative: riorganizzazione del lavoro delle sezioni per mantenere gruppi stabili (43%), gestione dei servizi in presenza di casi Covid accertati (35%), insufficienza di personale (23%), difficoltà di approvvigionamento di materiali, prodotti e dispositivi di protezione individuale (14%), insufficienza degli spazi disponibili in relazione al numero di iscrizioni (11%), esubero di personale (4%).
Infine, il 39% dei Comuni ha dichiarato criticità nella gestione delle relazioni con i genitori. Per garantire lo svolgimento dei servizi gran parte dei Comuni ha adottato misure e riadattamenti organizzativi, come la rimodulazione degli spazi disponibili (82%) e l’adozione di orari di ingresso e uscita scaglionati (68%).
Per adattare l’offerta del servizio ai vincoli dell’emergenza sanitaria, soprattutto al Nord sono state implementate migliorie quali formazione del personale (75%), acquisto di nuovi materiali educativi (40%), predisposizione di nuovi strumenti a supporto di attività individuali (58%), attivazione di canali straordinari per il contatto con le famiglie e la consulenza pedagogica (46%).
Solo il 35% ha potuto assumere nuovo personale e il 7% ha acquisito spazi aggiuntivi. Meno di un terzo dei Comuni ha dovuto invece rivedere l’offerta in senso restrittivo, riducendo il numero dei bambini accolti (27%) o l’orario di apertura (21%), limitando il numero delle sezioni (10%) o con la chiusura del servizio mensa (10%), adottata maggiormente dai Comuni del Sud (27%).

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)