Venezuela: dove è buio anche di giorno
Il Venezuela è un Paese al collasso. Gli ultimi giorni sono stati segnati da 100 ore di black out che hanno fermato il Paese. La mancanza di acqua e cibo hanno ulteriormente esasperato la popolazione provata da anni di povertà. Il 18% dei bambini venezuelani sotto i 5 anni soffre di denutrizione acuta. Inoltre l'acuirsi della crisi politica tra Governo e Opposizione sta spingendo molti a emigrare. Ieri l'aeroporto di Caracas è stato preso di assalto da persone che volevano lasciare il Paese. Un primo resoconto dal Venezuela dove in questi giorni si è recata in visita di solidarietà una delegazione di Aiuto alla Chiesa che soffre, composta dal suo direttore, Alessandro Monteduro e dall'assistente ecclesiastico Padre Martino Serrano
Alejandra tiene in braccio sua figlia Aurora di 2 anni, l’altra, Estella, di 4 anni si appoggia alle grandi valigie in attesa che torni nonna Isabel con un po’ di acqua. L’aeroporto di Caracas, “Simón Bolívar International – Maiquetia”, è pieno di gente in partenza, ma sarebbe meglio dire in fuga. Gli effetti dei black out – in alcune zone durati anche 100 ore – che da giovedì scorso hanno messo in ginocchio il Venezuela di Nicolás Maduro si sentono ancora adesso: voli cancellati, luci al minimo, aria condizionata inesistente.
Ai desk gli addetti ai voli completano le carte di imbarco a mano e i facchini portano a mano le valigie destinate alla stiva. I nastri trasportatori, infatti, funzionano poco. Tutto è rallentato e le file si allungano a dismisura. Chi parte porta via con sé anche gli animali domestici come cani e gatti.
La notizia che gli Usa hanno deciso di ritirare tutto il personale diplomatico dal Paese – o viceversa che Caracas ha ordinato lo sgombero dell’ambasciata statunitense – ha spinto molte persone a lasciare il Paese. La paura per lo scoppio di violenze tra Governo e Opposizione è infatti altissima e si percepisce ascoltando i discorsi tra la gente in fila. Non bastano la crisi economica e finanziaria, la povertà e la fame, ora anche il timore di una guerra civile spinge chi può ad emigrare. Secondo il card. Baltazar Porras Cardozo, amministratore apostolico di Caracas e arcivescovo di Mérida “negli ultimi anni circa 4 milioni di venezuelani sono emigrati all’estero per sfuggire alla fame. Di questi 1 milione solo nel 2018”. Alla povertà si aggiunge anche il rischio di violenza con l’esercito pronto a reprimere le manifestazioni dell’Opposizione dell’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaidò. Un muro contro muro che non promette nulla di buono.
Troppo per Alejandra che ha deciso di raggiungere, insieme alle figlie, suo marito Josep a Montevideo, in Uruguay, dove lavora come vigilantes in una banca. Caracas, Panama e da lì a Montevideo. Nelle valigie tutto il necessario per ripartire da capo. “Non si può restare più in Venezuela qui non c’è futuro” dice con le lacrime agli occhi. Lo sguardo è rivolto alle bambine. “È per loro che vado via. Che futuro potranno avere qui se tutto resta come è? Ho lottato molto per avere i documenti necessari ad espatriare. Non ci lasciano partire facilmente ma ora eccomi qui”. I più istruiti e preparati sono già andati via da un po’ lasciando il Paese privo di insegnanti, medici, ingegneri e lavoratori specializzati.
Alejandra stringe nelle mani le carte di imbarco. Sono il suo lasciapassare per una vita migliore, di certo più serena. E racconta la storia di tanti venezuelani come lei che “da anni, ogni giorno, hanno a che a fare con la mancanza di energia elettrica, di cibo, di acqua e di medicine”.
Nascere e morire in Venezuela è difficile. “I bambini appena nati vengono accuditi in culle di cartone mentre i defunti deposti in bare ricavate da alberi di banano”
racconta al Sir padre José Daniel Dallos, parroco di Nostra Signora di Coromoto a Guaracarumbo, nella diocesi la Gueira. A poca distanza un uomo rovista nella spazzatura per trovare qualcosa da mangiare. Anche questo è il volto della povertà in Venezuela. Scelte politiche scellerate hanno messo in ginocchio un Paese ricco di petrolio, di risorse minerarie, di vegetazione. I dati lo confermano: oggi in Venezuela uno stipendio medio mensile si aggira sui 5 dollari, più o meno 18 mila bolívar. Praticamente 16 centesimi al giorno. Secondo Caritas Venezuela “il 18% dei bambini sotto i cinque anni soffre di denutrizione acuta”.
Per nutrire una famiglia di 4 persone occorrono non meno di 120 dollari al mese”. La metà della paga se ne va per i mezzi pubblici necessari per recarsi a lavoro. Col restante si fa poco o nulla: un filone di pane costa all’incirca 2000 bolívar, un kg di riso 5000, un dentifricio circa 6000, più o meno come un sapone. Introvabili i rotoli di carta igienica. Comprare latte, carne e pesce, quando si trovano, è roba per pochi e ricchi.
Una volta al mese, “da diverso tempo anche ogni due”, le famiglie, ma solo quelle iscritte nelle liste del municipio, ricevono il “Clap”(Comité locale de abastecimiento y production) il pacco viveri governativo, che contiene 2 kg di riso, 1 kg di pasta proveniente dalla Turchia, 1 kg di zucchero, 1 kg di latte in polvere, 2 kg d lenticchie, 4 scatole di tonno, 1 di salsa di pomodoro e 250 gr. di maionese.
Nelle zone più periferiche delle città e in quelle interne reperire cibo e beni di prima necessità è difficile. Gli scaffali dei supermercati sono mezzi vuoti. La benzina, invece, per quanto razionata, viene praticamente regalata. Con un solo bolivar si riescono a fare più pieni. Serve solo tanta pazienza ai distributori controllati dal Governo. Le file sono lunghissime e per evitare problemi di ordine pubblico sono stati messi soldati e poliziotti a vigilare. Nel Venezuela di Maduro se la gran parte della popolazione riesce ancora ad andare avanti è solo grazie alle rimesse dei connazionali all’estero, circa 4 milioni, che ammonterebbero ad oltre 3,5 miliardi di dollari, la seconda voce nell’economia venezuelana dopo gli introiti petroliferi.
“Siamo un paese ricco fatto diventare povero” dice Alejandra che non vuole commentare la politica del Governo e dell’Opposizione. In fondo la scelta di emigrare è già a suo modo un atto di accusa contro un sistema corrotto.
In Uruguay l’aspettano il marito e una nuova vita. “La stessa che vorrei per il mio Paese, dove spero un giorno possa regnare il benessere, la democrazia, la pace e l’unità”.
L’imbarco è cominciato, resta il tempo di un ultimo sguardo e di un saluto ai familiari rimasti. Bisogna fare presto. Si deve preparare il gate per il prossimo volo. Fuori c’è ancora tanta gente che aspetta di uscire dal Venezuela, dove è buio anche di giorno.