Salute. La correlazione tra epidemie influenzali e tasso di umidità
Perché l’epidemia influenzale, ogni anno responsabile di circa mezzo milione di morti in tutto il mondo, si verifica con andamento stagionale?
Come consuetudine, da qualche mese è terminata la temuta stagione influenzale. O almeno è terminata per noi, abitanti dell’emisfero nord del pianeta. Sta invece iniziando per chi abita le regioni dell’emisfero sud, per protrarsi in genere fino al mese di settembre. Ma perché l’epidemia influenzale, che ogni anno è responsabile di circa mezzo milione di morti in tutto il mondo, si verifica con questo andamento stagionale? Un quesito a cui da tempo virologi ed epidemiologi stanno provando a dare risposta.
Un contributo importante in tal senso viene dalle conclusioni di un recente studio (pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”), realizzato da un gruppo di ricercatori della Yale University (Connecticut, USA), coordinati da Akiko Iwasaki. In base ad esse, risulterebbe che nelle regioni temperate della Terra, le epidemie d’influenza sono strettamente correlate al basso livello di umidità ambientale.
In verità, già da tempo vari studi sull’argomento avevano evidenziato più volte l’importanza che rivestono alcuni fattori legati alla stagione invernale, come la bassa temperatura, la tendenza delle persone a frequentare luoghi chiusi e affollati (dove il contagio è più facile), le variazioni di umidità, la limitata esposizione alla luce solare (causa di una diminuzione dei livelli di vitamina D nell’organismo umano). In particolare nel 2010, uno studio basato sull’analisi di dati raccolti nell’arco di 30 anni negli Stati Uniti aveva dimostrato una stretta correlazione tra le epidemie d’influenza e le condizioni ambientali. Infatti, i suoi autori avevano evidenziato come i picchi di decessi attribuibili al virus corrispondevano inequivocabilmente all’occorrenza dei valori minimi dell’umidità. La ragione di questo nesso è stata poi spiegata da studi successivi, che hanno dimostrato come la bassa temperatura e la bassa umidità facilitino la trasmissione delle particelle di virus nell’aria.
Ma non era ancora chiaro se il fattore umidità potesse avere un impatto anche sulla risposta dell’organismo all’infezione. Per sciogliere tale dubbio, Iwasaki e i suoi colleghi della Yale University hanno condotto uno studio sperimentale su topi di laboratorio. Gli animali sono stati posti per 4-5 giorni in gabbie con livelli di umidità relativa bassi (10-20 %) o alti (50 %); successivamente sono stati esposti a un ceppo molto virulento di influenza A. Risultato? I maggiori tassi di infezione sono stati riscontrati nei topi esposti a bassi livelli di umidità. Ulteriori analisi di approfondimento hanno poi individuato nell’alterazione della clearance mucociliare (ovvero la prima linea di difesa del sistema respiratorio nei confronti di polvere, minuscoli corpi estranei, virus e altri agenti patogeni inalati) la causa della maggiore suscettibilità al virus.
La spiegazione sta nella dinamica di questo meccanismo di difesa. Le particelle inalate, infatti, rimangono intrappolate nel muco che riveste le vie aeree. Esso viene poi spostato, come su un rullo trasportatore, dal movimento delle ciglia presenti sull’epitelio verso la laringe, dove viene deglutito o, in minima parte, espettorato. Ma per funzionare bene, questo sistema di trasporto e di continuo “lavaggio” dell’epitelio necessità di un muco che abbia giusta composizione e quantità; se esso si secca rapidamente – come accade quando una persona si trova in un ambiente con una bassa umidità relativa – il meccanismo si inceppa e le particelle sfuggono alla loro “trappola”.