Salmo 42. Un salmo per accompagnare il quotidiano combattimento spirituale contro la tristezza e lo sconforto

Ciò che è fondamentale è non perdere la direzione del nostro desiderio, la volontà già su questa terra, quando ancora siamo distanti, di ricongiungersi con Lui nel Regno.

Salmo 42. Un salmo per accompagnare il quotidiano combattimento spirituale contro la tristezza e lo sconforto

Gli esegeti sono concordi nel ritenere che con i Salmi 42 e 43 – che probabilmente venivano recitati insieme – si apra una seconda raccolta interna del Salterio che comprende fino al salmo 83, tutti facilmente riconoscibili per alcune comuni caratteristiche letterarie. Quello che, però, richiama subito la nostra attenzione è la splendida metafora iniziale, così icastica da rimanere fortemente presente anche in tutta la tradizione iconografica cristiana: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio (v. 2). Davvero il credente può essere equiparato alla cerva, animale fragile, che, per la propria sopravvivenza, in Palestina, può ridursi alla ricerca spasmodica di acqua presso ruscelli occasionali che spesso sono in secca. E poi la metafora si fa più esplicita: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?” (v. 3) Chi prega, sta vivendo un momento di prova molto dolorosa e nel buio, gli pare che Dio sia assente, nel contempo, però, è come se non fosse completamente privo della speranza: egli sa che ci sarà un giorno in cui potrà contemplare pienamente il Signore. “Le lacrime sono il mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: “Dov’è il tuo Dio?” (v. 4). Saggiamente, Sant’Agostino – commentando questo salmo che già ai suoi tempi i catecumeni recitavano in attesa di ricevere il battesimo – scrive che le lacrime sono come pane perché frutto della nostra fatica, mentre la sete che abbiamo di Dio non possiamo colmarla da soli, sono due alimenti diversi. Solo dal Signore viene l’acqua di salvezza. “Giorno e notte”, precisa il verso, quasi a significare che il combattimento è un continuo alternarsi fra il lamento e la fiducia, lo sconforto e appunto la speranza. Gli esegeti cristiani, poi, non hanno mancato di ritrovare nel richiamo allo scherno di chi imputa al credente che il suo Dio non si fa vedere e non agisce, proprio quello che è successo a Gesù sotto la croce, quando c’era chi si chiedeva perché se davvero era il figlio di Dio non gli venisse evitata la morte. Ecco, perché ci si può immaginare che le parole di dolore di questo salmo siano state fra quelle usate da Gesù nell’orto degli ulivi, quando dice ai discepoli “La mia anima è triste fino alla morte, Restate qui e vegliate” (cfr. Mt 14, 33-34). Il testo poi prosegue facendo proprio il tema della memoria. Le parole che leggiamo sono quelle di un esule che si trova lontano dal Tempio di Gerusalemme, quando insieme al popolo, in un clima famigliare, poteva partecipare ai riti religiosi: “Questo io ricordo e l’anima mia si strugge: avanzavo tra la folla, la precedevo fino alla casa di Dio, fra canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa” (v 5); ma sul lamento prevale la domanda che presuppone la consolazione: “Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio” (v. 6). Un verso che affiora nuovamente anche al termine del componimento. È come un ritornello che una mamma ripete al suo piccolo per addormentarlo placido al suo seno, quella parola che dirada il buio e immette una stilla di luce anche nel buio più fitto. Ma le metafore naturalistiche non sono finite. Anche l’immagine delle cascate che echeggiano una con l’altra è di grande poeticità e in essa si può leggere un significato profondo: “Un abisso chiama l’abisso al fragore delle tue cascate; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati” (v. 8). Sembra quasi che il salmista voglia dire che l’abisso di mistero che è l’uomo vuole fondersi con l’abisso di Dio. Ciò che è fondamentale è non perdere la direzione del nostro desiderio, la volontà già su questa terra, quando ancora siamo distanti, di ricongiungersi con Lui nel Regno. Più avanti ancora pare che le parole dell’orante gli facciano temere di essere sovrastato dai nemici e che prevalga lo scoraggiamento di sentirsi dimenticato dalla “roccia” che è il Signore (cfr. vv. 9-10), ma alla fine prevale il ritorno alla speranza (“Perché ti rattristi, anima mia, perché ti agiti in me? Spera in Dio: ancora potrò lodarlo, lui, salvezza del mio volto e mio Dio” v. 12). Un salmo, dunque, che ancora oggi tutti possiamo recitare per accompagnare il quotidiano combattimento spirituale contro la tristezza e lo sconforto affinché essi non diventino vizi radicali, ma elementi umani con cui saper fare i conti con il coraggio che Dio non ci farà mancare.

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Fonte: Sir