Patogeni volanti. Uno studio sulla presenza e gli effetti degli insetti negli ospedali

I principali veicoli di infezione negli ospedali non sono comunque le mosche, bensì le nostre mani.

Patogeni volanti. Uno studio sulla presenza e gli effetti degli insetti negli ospedali

Parliamo sì di ospedali inglesi, ma… pensiamo a quanto accade in alcuni ospedali italiani! Una cosa certa è che, attraversando i corridoi di una struttura ospedaliera moderna (ovvero ambienti che presumiamo essere “sigillati” dal punto di vista sanitario), ci stupiremmo alquanto se, oltre al via vai dell’affannato personale sanitario e degli utenti, notassimo anche la presenza di numerosi insetti volanti che si librano indisturbati tra i vari reparti. E, forse, cominceremmo anche a preoccuparci sulla reale “salubrità” di quegli ambienti. Per fortuna, non è questa la scena consueta, e l’eventuale presenza di qualche raro insetto volante nei moderni luoghi di cura è in genere vista come un’eccezione di cui non preoccuparsi troppo.

Giusto? No, sbagliato! Pare infatti che anche una sporadica presenza di questi “ospiti alati” sia sufficiente a farne dei potenziali vettori di agenti patogeni. E’ quanto risulta da un recente studio condotto negli ospedali inglesi, che ha rilevato tracce di batteri potenzialmente pericolosi per l’uomo in 9 insetti su 10 tra quelli raccolti “in corsia” con l’aiuto di piccole trappole appiccicose, elettroniche o agli ultravioletti.

La ricerca, realizzata da un gruppo di studiosi della Aston University di Birmingham (UK), è consistita anzitutto nella cattura, durante un anno e mezzo, di circa 20.000 insetti, entrati casualmente dalle finestre in 7 ospedali del National Health Service inglese. Gli insetti sono stati reperiti in vari reparti, inclusi un’unità neonatale e un’area per la preparazione dei pasti. Il “bottino di caccia” è risultato essere composto principalmente da mosche (il 76%), ma anche da falene, afidi, cicaline, formiche volanti e api.

A questo punto i ricercatori hanno analizzato l’eventuale presenza di agenti patogeni in questi insetti. Risultato? Alquanto preoccupante: oltre la metà degli esemplari ospitava ceppi di batteri resistenti ad almeno una classe di antibiotici, mentre quasi il 20% presentava “superbatteri” resistenti a diverse categorie di antibiotici!

Negli esoscheletri degli insetti sono stati isolati ben 86 ceppi batterici, di cui il 41% apparteneva alla famiglia degli Enterobacteriaceae (E.coli e Salmonella), il 24% alla stessa famiglia del B. cereus (in grado di causare intossicazioni alimentari) e il 19% a quella degli Staffilococchi (responsabili di infezioni della pelle, ascessi e infezioni respiratorie).

Il dato che preoccupa di più gli studiosi è proprio la prevalenza di batteri antibiotico-resistenti nella maggior parte degli insetti analizzati: un “campanello d’allarme vivente” di cosa possa causare un utilizzo sconsiderato – o addirittura incontrollato – di antibiotici, persino negli ospedali.

Il problema più inquietante, dunque, non è tanto la presenza in sé degli insetti (che comunque è certamente da debellare), quanto le caratteristiche degli agenti patogeni di cui essi sono “inconsapevoli trasportatori”.

Per fortuna, il reale rischio che infezioni difficili da curare si trasmettano all’uomo attraverso le mosche ospedaliere è minimo, commisurato alla quantità di materiale batterico ospitato e dalle superfici su cui l’insetto si posa. Ma certo, questa ricerca mette in allerta sulla necessità – in Inghilterra come in Italia – di approntare misure che tutelino i pazienti dagli incontri ravvicinati con questi vettori di patogeni, tenendo conto del fatto che essi potrebbero divenire strumenti anche del percorso inverso, veicolando i tanti e diversi patogeni presenti nell’ambiente ospedaliero verso l’esterno.

In chiusura, una nota: statistiche alla mano, i principali veicoli di infezione negli ospedali non sono comunque le mosche, bensì le nostre mani! Questi i risultati di un recente studio, secondo cui il 14% dei pazienti ospedalieri aveva batteri antibiotico-resistenti sulle mani o nelle narici all’inizio del ricovero, e in quasi un terzo dei casi questi stessi batteri venivano diffusi sulle superfici toccate.

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Fonte: Sir