Non dimenticate mai il piccolo Finkelstein. La marcia di Salomon, da Auschwitz alle aule scolastiche di oggi
Salomon Finkelstein, il piccolo ebreo sppravvissuto ai campi di concentramento, che raccontava agli studenti la sua storia.
Alcune settimane fa si sono alzati in piedi, tutti quanti, in silenzio. Loro, millennial che faticano spesso a distogliere l’attenzione dal cellulare, hanno alzato lo sguardo per guardare negli occhi Salomon, che con i suoi 96 anni e una vita segnata profondamente nel corpo e nello spirito, riceveva il diploma onorario di scuola superiore alla scuola Laatzen Albert Einstein di Hannover, in Germania.
Nelle scuole, Salomon Finkelstein, c’era andato molte volte. Soprattutto negli ultimi anni. Entrava in aula magna o in classe per raccontare una storia, la sua. E ogni volta era come riaprire una ferita, che sapeva bene non si sarebbe mai potuta rimarginare del tutto. Ma erano proprio gli occhi e i volti di quei ragazzi e ragazze, ammutoliti di fronte al racconto degli orrori che lui aveva visto e subito ad Auschwitz, il balsamo migliore per lenire il dolore delle sue ferite.
Salomon veniva da un mondo che non esiste più. Nato e cresciuto a Lodz (Polonia), città multiculturale popolata da polacchi, tedeschi ed ebrei, quando i nazisti invasero il paese aveva appena 17 anni. Con la sua famiglia finì nel ghetto, insieme ad altre centinaia di ebrei. Qui conosce la fame. “La gente era così debole – raccontava – che doveva aggrapparsi alle pareti per riuscire a stare in piedi”.
Salomon era giovane e i nazisti avevano bisogno delle sue braccia. Lo costrinsero ai lavori forzati. Insieme ad altri suoi compagni di sventura, viene messo a costruire strade. Fino a quando, nel 1943, varca la soglia di Auschwitz.
“Non si può descrivere Auschwitz”, raccontava ai ragazzi nelle scuole. Ma poi sul dolore del ricordo prevaleva il desiderio di mantenere viva la memoria di quell’orrore, affinché non avesse mai più a ripetersi. E allora parlava di Josef Mengele, il medico del campo di concentramento, che un giorno tracciò una riga sul muro e mandò a morire tutti i bambini che non raggiungevano quella riga. E raccontava delle guardie del campo, che la sera giocavano con i bambini, mentre di giorni li uccidevano. “Non riuscirò mai a capire”, ripeteva. Parole di un uomo segnato da un orrore così grande da non trovare un “perché”.
“Per due anni non sono stato una persona, ma solo un numero”. Lo ha raccontato nelle scuole, lo ha scritto in un libro di memorie.
Poco prima della fine della guerra, insieme ad altri detenuti, venne portato nel campo di concentramento di Dora Mittelbau, dove venne costruito il V2, il precursore di tutti i missili balistici. Riottenne la libertà poco prima dell’arrivo degli alleati. Ma anche la libertà gli faceva paura. Per anni si era sentito ripetere: “Vuoi la libertà? Appena oltre il camino!”.
Iniziò insieme ad altri la marcia della morte. Salomon sopravvisse anche a quella, come è sopravvissuto ad Auschwitz. Giunse in Germania, dove rimase. Aveva imparato a distinguere molto bene i tedeschi dai nazisti. Lo aveva imparato a fare già ad Auschwitz. Perché, nonostante tutto quello che era stato costretto a subire, a Salomon le persone piacevano. E piaceva anche la musica. Solo qualche giorno fa aveva voluto festeggiare anticipatamente i suoi 97 anni a Villa Seligmann, la casa della musica ebraica a Hannover.
Prima di chiudere gli occhi, Salomon ha fatto in tempo a salutare l’arrivo dell’estate. È morto giovedì scorso alla Mhh, la clinica universitaria di Hannover.
Quei ragazzi, a cui con fatica, ha raccontato per anni la sua storia di sopravvissuto, lo hanno saputo dai loro cellulari.
Loro, che hanno appreso da Fecebook della morte di Salomon, sono l’ultima generazione ad aver avuto davanti a sé, in carne ed ossa, un pezzo di storia di prima mano.
A loro, Salomon, prima di salutarli ripeteva sempre: “Vergesst den kleine Finkelstein nicht”, “Non dimenticate mai il piccolo Finkelstein”.
Irene Argentiero