Libertà di stampa: una mappa per monitorare gli effetti della pandemia
L’emergenza coronavirus ha dato una spallata alla libertà di stampa in diversi paesi del mondo, dove i leader politici stanno sfruttando la situazione per zittire le critiche e spingere verso una censura più o meno celata: la denuncia di Reporters Sans Frontières
L’emergenza coronavirus ha dato una spallata alla libertà di stampa in diversi paesi del mondo, dove i leader politici stanno sfruttando la situazione per zittire la critiche e spingere verso una censura più o meno celata. Lo denuncia Reporters Sans Frontières, che ha messo in piedi il progetto #Tracker_19 per “monitorare l'impatto della pandemia sulla stampa”. Il numero “19” è stato scelto, oltre che per richiamare il Covid-19, anche come riferimento all’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sulla libertà di opinione ed espressione.
Filippine e Thailandia. Nelle Filippine il nuovo Bayanihan to Heal As One Act ha concentrato poteri speciali nelle mani del presidente Rodrigo Duterte e si può finire ora in galera per la diffusione di informazioni ritenute “false”. Si segnalato, tra gli altri, casi di giornalisti che stanno rischiando due mesi di prigione e multe di oltre 17 mila euro. E la situazione non è molto diversa in Thailandia, dove si può andare in prigione per 5 anni per informazioni “false” o che provochino “panico e allarmismo”. Quando una notizia si possa definire falsa, però, non è scritto nel decreto di fine marzo.
Iraq e Iran. L’agenzia di stampa Reuters ha dovuto sloggiare dall’Iraq dopo aver pubblicato un articolo in cui si sosteneva che il numero dei morti per coronavirus fosse sottostimato. La commissione competente, infatti, ha tolto all’agenzia la licenza per lavorare nel paese, oltre ad aver comminato una multa da 20 mila euro. E nell’Iran pesantemente colpito dal coronavirus si è tentato di non diffondere la reale portata dell’epidemia, tanto che già a fine febbraio erano stati eseguiti 30 arresti proprio per informazioni false sull’emergenza sanitaria.
I negazionisti. In Turkmenistan e Bielorussia le autorità non riconoscono la gravità situazione. Nel primo caso, è stato proibito l’uso della parola “coronavirus”, mentre in Bielorussia non sono state prese contromisure per evitare la “psicosi” ed è stato imprigionato chi ha criticato la posizione del premier Lukashenko. E tra i leader che continuano a negare l’emergenza coronavirus c’è anche il Brasile di Jair Bolsonaro, che ha attaccato in diverse occasioni la stampa, rea di aver “diffuso la paura sfruttando l’alto numero di vittime in Italia”.
Cina. La censura ha contraddistinto la linea di Pechino. A fine marzo la Cina ha espulso tredici reporter statunitensi e diversi ambasciatori cinesi sono impegnati a smentire analisi uscite sui media internazionali (è accaduto, per esempio, in Australia, Perù e Canada).
Ungheria. Budapest ha approvato un decreto che, tra le altre cose, rende possibile condannare un giornalista fino a 5 anni di prigione per notizie “false”. Anche in questo caso, non viene definita con precisione cosa si intenda per “falsa” notizia.