Il ruggito del Dragone. La guerra tra la mega-fabbrica cinese e l’Occidente
L’idea che la globalizzazione avrebbe portato ad un mondo tutto uguale guidato sostanzialmente da un globale consumismo, è definitivamente tramontata
Sono più terribili le guerre con le armi o quelle commerciali? Le prime senza dubbio; ma le seconde da sempre sono propedeutiche alle prime. E quando sui commerci soffiano venti di guerra, l’umanità ha il vizio di affilare i coltelli.
Il Papa ha detto (e tutti a pensare: esagerato!): stiamo vivendo la Terza Guerra mondiale a pezzi. Un pezzo di questa è sicuramente dato dalla contrapposizione tra Stati in materia economica. Non parliamo delle sanzioni occidentali alla Russia, alla Corea del Nord, all’Iran, al Venezuela. Quelle sono guerra vera e propria combattuta con altre armi. L’epicentro è un altro: quello tra la mega-fabbrica cinese e l’Occidente.
Quest’ultimo, venticinque anni fa, ha stoltamente deciso di trasferire buona parte delle sue produzioni laddove costavano meno, appunto in Cina. Enorme disponibilità di manodopera non sindacalizzata e pagata poco.
A farla breve: per un ventennio noi occidentali abbiamo fatto enormi profitti, sia sul lato della produzione che dei consumi. La grande offerta di beni provenienti dalla Cina ha portato al calo dei prezzi di buona parte di essi, con una piccola controindicazione: mettevano fuori mercato tutte le produzioni ancora rimaste in Occidente. E oggi non sappiamo più costruire né uno pneumatico, né un telefonino.
Ma tant’è: sull’avidità non abbiamo da imparare da nessuno.
Il tutto si reggeva su un patto implicito: tu, Cina, rimani come sei e dove sei e nel frattempo accelera il tuo sviluppo economico, portando un miliardo e mezzo di individui dalla ciotola di riso alle vetrine di Chanel. Noi occidentali diventiamo il mercato del mondo, chiudendo un occhio e anche due su democrazia, libertà, diritti negati.
Sì, ogni tanto una botta d’indignazione (paghe da fame, bambini sfruttati qua e là, tossicità delle produzioni). Ma i guadagni erano troppo alti per rinunciarvi in nome dell’etica.
Oggi però la Cina ha una leadership che ha fatto saltare il patto. Non vuole ingerenze occidentali, non riconosce il dominio implicito americano, ha cominciato ad espandersi in mezzo mondo, in particolare in Africa; con gli enormi profitti accumulati ha creato fabbriche cinesi e non più filiali occidentali e ha comprato pezzi di Occidente, dal porto del Pireo alle squadre di calcio.
La Cina rimane poi un Paese dittatoriale. Che non segue le regole del libero mercato: insomma, può finanziare senza limiti le proprie industrie, sbarellando ogni forma di concorrenza. In più ha nelle mani le materie prime e la tecnologia per mettersi alla pari con gli americani (Europa sempre meno pervenuta). I quali non sono cotechini e hanno cominciato ad alzare le barriere: dazi, blocchi alle importazioni, stop a quegli smartphone prodotti direttamente dallo Stato cinese, fino al recente stop alle auto elettriche o con dotazioni informatiche “sensibili” made in China.
Quelle auto cinesi, che stanno dominando il mercato, sono anche “contenitori” delle informazioni relative alle nostre vite; in più, il timore è che i cinesi possano manovrarle da remoto, ad esempio per paralizzare la circolazione stradale, se un giorno le guerre commerciali diventassero… Ma avanti così, dove andremo a finire?
Una cosa è certa: l’idea che la globalizzazione avrebbe portato ad un mondo tutto uguale guidato sostanzialmente da un globale consumismo, è definitivamente tramontata. Siamo ancora ai blocchi contrapposti e inconciliabili, al noi contro loro. Forse quel Papa aveva ragione.
P.s.: il Governo italiano sta pregando i cinesi di impiantare fabbriche di auto elettriche nel Belpaese, nel nome dei posti di lavoro. Ecco: oggi sono loro a delocalizzare in Molise…