Giù le mani da Mattarella
Parlare adesso del nuovo presidente, fosse anche per auspicare la rielezione di quello in carica, sarebbe più che una violazione del galateo istituzionale.
Portar fuori il Paese dalla pandemia, tamponare le ferite economico-sociali che essa ha provocato, progettare la ricostruzione utilizzando al meglio i fondi europei che affluiranno in misura mai vista prima. Le sfide a cui deve far fronte in questa fase il sistema politico italiano, nei suoi diversi soggetti e con diverse quote di responsabilità, sono enormi e dall’esito tutt’altro che assicurato. Sarebbe ingeneroso sottovalutare l’impegno – e anche taluni risultati – di chi si sta adoperando su questo versante, a tutti i livelli e sotto qualunque bandiera. Però a scorrere le cronache politiche quotidiane sembra che leader e partiti siano occupati in primo luogo a manovrare intorno alle sorti dell’esecutivo, come se alla crisi economico-sanitaria si potesse aggiungere a cuor leggero una crisi di governo, per cambiare premier e maggioranza o anche solo qualche ministro, il cosiddetto “rimpasto”, che solo a dirlo suona male.
Crisi per crisi, viene da pensare che qualche leader soffra della sindrome da astinenza da campagna elettorale. Tutti sanno che di elezioni politiche anticipate non è sensato parlare, anche se ogni tanto il tema viene agitato senza troppa convinzione neppure da parte di chi lo solleva. In primavera ci saranno da eleggere i sindaci delle città più grandi, Roma compresa. È un appuntamento di grande rilievo, ma non basta, anche perché le dinamiche sul piano locale non coincidono mai del tutto con quelle nazionali. Ecco che allora viene messa in campo, più o meno esplicitamente, la questione delle questioni: l’elezione del presidente della Repubblica. Per la verità è almeno dallo scorso anno che l’argomento affiora in modo carsico nel dibattito politico. Adesso però è diventato una chiave di lettura di tutti i comportamenti, sia per quanto riguarda i partiti – per esempio ogni volta che si parla di allargamento, formale o sostanziale, della maggioranza – sia per ciò che concerne i singoli e le loro vere (o presunte) ambizioni presidenziali.
Il mandato del capo dello Stato dura sette anni e Sergio Mattarella ha giurato davanti al Parlamento il 3 febbraio 2015. Fino all’ultimo giorno sarà il presidente di tutti gli italiani nella pienezza dei suoi poteri, eccetto quello di sciogliere le Camere nei sei mesi che precedono la scadenza dell’incarico. È la Costituzione stessa a prevederlo per evitare il rischio – pensate un po’ – che un presidente possa manovrare per avere un Parlamento più favorevole alla sua rielezione. Una norma che la dice lunga su quanto fosse delicata l’ultima fase di un mandato presidenziale nella mente dei Padri della Repubblica. Punto. Parlare adesso del nuovo presidente, fosse anche per auspicare la rielezione di quello in carica come pure tanti cittadini desidererebbero, sarebbe più che una violazione del galateo istituzionale, una vera e propria sgrammaticatura costituzionale. È troppo augurarsi che almeno il Colle più alto venga lasciato fuori dalle manovre di questi mesi? Se non per senso dello Stato almeno per scaramanzia: i precedenti insegnano che tutto si decide nell’ultimo miglio e tanto affannarsi anzitempo si è rivelato spesso controproducente.