Quello che ci ha insegnato Alfie
Il dovere di custodire la vita, il ricordare che ogni essere umano è portatore di dignità e che nessuno è padrone della vita, solo Dio, il ripensare le leggi alla luce della fondamentale distinzione tra "terapia" e "cura": sono alcuni tasselli del "testamento spirituale" lasciato dal piccolo Alfie Evans al termine della sua breve, ma combattiva, esistenza.
Se in ogni civiltà la misura umana della giustizia consiste nella capacità di difendere i deboli dai soprusi dei potenti, di dare voce a chi non ha voce di fronte al più forte, di tutelare chi ha bisogno di aiuto, oggi più che mai è necessario ripercorrere quanto accaduto e aprire una riflessione profonda.
Nel dolore che provoca la perdita prematura – per cause prossime e in circostanze così drammatiche, perché non indipendenti dalla mano dell’uomo – di un piccolo figlio che sentiamo davvero nostro, perché di Dio e della Chiesa nella cui fede è stato battezzato, la penna fa fatica a scrivere e i pensieri si moltiplicano e si intersecano. Eppure, dopo aver fatto silenzio e pregato per Alfie e per i suoi genitori dal coraggio e dalla speranza inarrendibili, qualcosa occorre dire, per amore della Verità che questo bambino ora contempla in Cielo, tutta intera, prima di averla potuta conoscere in Terra, e per onorare il suo lascito, il “testamento spirituale” non scritto con l’inchiostro ma inciso nella sua carne.
Anzitutto, una duplice verità che papa Francesco ha evidenziato mercoledì 18 aprile, al termine dell’udienza generale, ricordando Alfie e anche Vincent, il tetraplegico francese in stato di minima coscienza su cui pende una richiesta di sospensione di idratazione e nutrizione parenterale. “L’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio – ha detto il Santo Padre – e nostro dovere è fare del tutto per custodire la vita” che Egli ha donato ad ogni uomo e donna, bambino e adulto, sano o malato che sia. Sono due rocce granitiche, pietre miliari dell’etica medica, di quella sociale e anche di quella politica.
Chi si arroga il diritto (inesistente) di farsi padrone della vita propria o di un altro essere umano, per qualsivoglia motivazione, nega il diritto di Dio che è Padre di tutti e datore di ogni bene.
Chi – potendolo fare in proprio o delegando ad altri che si sono offerti per farlo – non si prende cura fino all’ultimo istante di custodire la vita di coloro che gli sono stati affidati a motivo della loro indigenza, fragilità e malattia, non ha fatto questo a Gesù, secondo quanto lui stesso ha detto: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (cfr. Mt 25, 45).
In ogni civiltà, la misura umana della giustizia (nell’antichità quella del re e dei suoi delegati, nelle moderne democrazie quella dei giudici) consiste nella capacità di difendere i deboli dai soprusi dei potenti, di dare voce a chi non ha voce di fronte al più forte. Dovere esemplificato nella Bibbia dalla tutela dei diritti della vedova, del figlio orfano e dello straniero (cfr. Dt 26, 12-13; 27, 19). E il diritto fondamentale di ogni essere umano è quello alla sua vita, in qualunque stagione o condizione dell’esistenza si trovi.Un diritto alla vita che, in alcune circostanze, passa attraverso l’accoglienza in una terra ospitale lontano dalla povertà endemica e dalle violenze senza fine, in altre dal ristabilimento della pace e dalla sospensione dei bombardamenti e di ogni azione bellica, e in altre ancora dalla fornitura sanitaria dei supporti fisiologici essenziali per il proprio corpo malato.Come ha affermato papa Francesco, “ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita” (Regina Coeli, 15 aprile 2018)
Infine, non si può dimenticare l’importanza decisiva che ha il quadro normativo di uno Stato nel tutelare e promuovere la vita dei suoi cittadini. In Europa e fuori di essa si stanno moltiplicando le leggi cosiddette “sul fine vita”. Anche in Italia ne è stata approvata una nel dicembre dello scorso anno. La vicenda sanitaria-giurisdizionale di Alfie ha evidenziato che il nodo più delicato e decisivo di queste leggi – e, ancor più, delle loro applicazioni – ruota attorno alla sottile lama che separa quelli che vengono chiamati “accanimento terapeutico” ed “eutanasia omissiva”.
Una lama che passa attraverso la fondamentale distinzione clinica, antropologica, etica e giuridica tra “terapia”, che può essere interrotta qualora risulti futile per un miglioramento o stabilizzazione delle condizioni cliniche del paziente, e “cura” (ovvero, “sostegno delle funzioni vitali” essenziali per la vita), che non deve mai venire meno finché risulta efficace per sostenere la vita. Il mancato recepimento di questa differenza nella legislazione di un Paese lascia intravvedere che ingiuste e drammatiche situazioni come quella di Alfie possano purtroppo ripetersi. Per scongiurare questo, occorre rivedere le norme che rendono operativamente equivalenti la terapia e le cure, e garantendo che a qualunque ammalato inguaribile non possano mai venire sospese le cure indispensabili per giungere dignitosamente fino all’ultima ora che Dio vorrà donargli, senza abbreviare mai intenzionalmente la sua vita.
Roberto Colombo
docente della Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore