La parola. Un’attesa generativa
Il Natale non esaurisce l’attesa di ciò che tutti speriamo: la fine della pandemia. E allora coltiviamo l’arte della pazienza per riappropriarci della fiducia smarrita per la frenesia del nostro fare continuo
Attendere è parola che suona, per me, diversa da aspettare. Etimologicamente, aspettare è formata sul guardare (ad-spicere), e indica qualcosa che già si configura all’orizzonte, che vediamo avvicinarsi con una fisionomia definita: sappiamo quello che aspettiamo. L’attesa mi pare più larga e ospitale, anche di ciò che è segreto e arcano: attendere (ad-tendere) è lo stato in cui si è protesi verso qualcosa, è anche il tempo – lo spazio – tra l’accendersi del nostro desiderio, e quando, e se, esso diventerà realtà. Ma l’attesa è capace di conservare intatto, e vibrante, intanto, quel desiderio, come sacro, vitale e già compiuto nella sua bellezza del passare (che precede ed è autonoma da ogni realizzazione). E nell’incanto: il tempo in cui cantiamo tutte le formule magiche che sappiamo perché accada ciò che desideriamo.
Certo l’attesa, proprio per il suo essere spalancata sul mistero senza difese, è talvolta pervasa anche di trepidazione, paura, fatica. Perché ciò che attendiamo potrà portare dolore, perdita, separazione, lutto. Tutto questo è incluso nell’ambito del possibile. Però mi sembra che, a differenza dell’aspettare (in cui avverto la sfumatura della spettanza), l’attesa sia un tempo attivo, trepidante, di movimento, di trasformazione. Non c’è immobilità, né chiusura, anzi apertura fertile e disponibile a ciò che la vita ci propone, a ciò che a lei proponiamo, e accoglienza anche dei mutamenti, del crescere, del rinascere. Noi insieme, perché la condivisione è forza e risorsa potentissima, e ineguagliabile.
Nel suo bel libro Pazienza, edito dalla casa editrice Il Mulino, Gabriella Caramore scrive qualcosa sulla pazienza che, nel mio sentire, parla anche dell’attesa: «La piccola “qualità paziente”, così sdegnata dalla vuota frenesia del secolo, si fa strada in mezzo alle incertezze, recupera il suo orgoglio antico, e comprende che deve farsi materia viva dentro un progetto che contenga l’altro come suo orizzonte e suo fine. Come il lievito che fa crescere la pasta, come il grumo di sabbia che può farsi perla, come il seme di senape che si trasformerà in albero capace di ospitare molti uccelli».
Nell’attesa ci brilla tra le mani una materia viva.
Ecco, in questo tempo così faticoso, spaventoso a volte e anche feroce, credo che possa aiutarci e sostenerci il persistere nel cercare e scovare senso e significati. Nel credere possibile la bellezza, l’intensità, il valore anche nell’ora qui. Non spostandoli dal presente in un futuro ideale che è ancora tutto avvolto nella nebbia. Credo che l’attesa della fine della pandemia debba essere abitata dalla fiducia nel bene che accade adesso, e che certamente accadrà. Che possiamo far accadere, ciascuno dando il proprio piccolissimo o gigantesco contributo di cura: come può, quello che può. Penso particolarmente ai bambini, a quanto sia necessaria per loro questa fiducia, e il sentire noi adulti fiduciosi. E il sentire questa passione generativa per la vita, che torna tenacemente a sorprenderci.
Allora anche l’attesa del Natale è tempo di rinascita e di un venire alla luce nuovi, ancorati – nel sostare – all’essenza profonda di noi, prima che al ritorno di quel fare-fare-fare travolgente e vorticoso che normalmente caratterizza le nostre vite. (Re)imparare la lentezza che consente l’abitare, il ricongiungersi dell’anima con il corpo, l’incontro autentico e l’intreccio meraviglioso della relazione.
Scrive Olga Tokarczuk, premio Nobel per la letteratura, nel poetico albo illustrato L’anima smarrita, edito da Topipittori e illustrato da Joanna Concejo: «Se qualcuno fosse in grado di guardarci dall’alto, vedrebbe che il mondo è pieno di persone che corrono in fretta e furia, sudate e stanche morte, nonché delle loro anime in ritardo, smarrite, che non riescono a star dietro ai loro proprietari. Da tutto ciò deriva una gran confusione, le anime perdono la testa, e la gente smette di avere cuore. Le anime sanno di avere smarrito il loro proprietario, ma spesso la gente non si rende affatto conto di avere smarrito la propria anima».
Dunque, buon Natale di attesa. Tessendo pazientemente la costruzione dell’umano, e la maturazione lenta e paziente delle cose. Ancora con Caramore, in una «tensione per mantenere in vita ciò che si può spegnere, ricomporre ciò che è ferito, ridare respiro di dignità e libertà a ciò che vediamo pericolosamente in bilico sul ciglio del mondo».
La tensione (ad-tendere) sia anche rivolta a cercare parole nuove, capaci di cura, a rinnovare parole usurate e abusate. E, anche, alla parola che sa ammutolire, per accogliere e autenticamente mettersi in ascolto della Parola che è l’altro.
Cristina Bellemo
Amante fedele della potenza delle parole
Cristina Bellemo vive a Bassano del Grappa. È stata per molti anni corrispondente della Difesa per la Valbrenta e il Bassanese. È autrice di libri illustrati per bambini e romanzi per ragazzi, con cui si è aggiudicata numerosi premi letterari. Ama incontrare i bambini nelle scuole e riscoprire con loro la potenza della lettura e il significato perduto delle parole.