Giornata mondiale pace. Don Patriciello: “La paura è la nemica dell’amore e della solidarietà”
"Siamo bravi a fare tante iniziative anche lodevoli, in ambito sia ecclesiale sia laico, ma quello che manca è proprio la cultura della vita, il prendersi cura. Dobbiamo trovare qualcosa che ci unisca tutti, credenti e non credenti, perché la pace non è un discorso solamente di Chiesa", sottolinea il parroco di Caivano, ricordando che "il Papa ha messo al centro, ancora una volta, la persona umana. E il concetto di persona, nato e maturato nel cristianesimo, è il contrario dell’individualismo, dice 'relazione'"
Oggi non è un primo gennaio come gli altri. Nel passato ogni Capodanno era carico di aspettative per il futuro: adesso le speranze non mancano, ma si accompagnano alla paura di quello che il Covid potrebbe ancora portare nelle nostre vite. Eppure, il 2020 ci ha insegnato qualcosa e Papa Francesco ce lo ha ribadito più volte: “Siamo tutti sulla stessa barca”. E di fronte al dolore dell’altro non possiamo girare le spalle, ma dobbiamo averne cura. Il messaggio del Pontefice per la 54ª Giornata mondiale della pace, che cade proprio oggi, 1° gennaio, non a caso ha per tema “La cultura della cura come percorso di pace”. Con don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, impegnato da anni nella tutela della salute e dell’ambiente nella Terra dei fuochi, riflettiamo sulle parole del Papa.
In un tempo segnato dal Covid, quanto è importante la cultura della cura?
Le parole del Papa mi colpiscono tanto. Poche persone avrebbero messo la cultura della cura come percorso di pace. Siamo bravi a fare tante iniziative anche lodevoli, in ambito sia ecclesiale sia laico, ma quello che manca è proprio la cultura della vita, il prendersi cura. Dobbiamo trovare qualcosa che ci unisca tutti, credenti e non credenti, perché la pace non è un discorso solamente di Chiesa. Il Papa ha messo al centro, ancora una volta, la persona umana. E il concetto di persona, nato e maturato nel cristianesimo, è il contrario dell’individualismo, dice “relazione”:
sono persona in quanto mi relaziono con me stesso, con gli altri, con Dio, con il Creato.
Tutto torna.
Il concetto di persona postula il concetto di inclusione.
Basti pensare a quante volte il Papa si è soffermato sulla cultura dello scarto e alle parole di madre Teresa sull’aborto. Il problema va risolto alla radice. Se diciamo che la persona anziana, in fin di vita, in fase terminale e l’embrione nei suoi primi mesi di vita intrauterina possono essere eliminati, prevale la cultura dello scarto e non ci potrà mai essere la cultura della cura che il Papa definisce come percorso di pace. Il concetto di persona si traduce nella dignità unica e inviolabile, che non si deve tradurre mai in sfruttamento, come capita, ad esempio, a scapito dei migranti che ci aiutano a coltivare le nostre terre. Da questa dignità, ci ricorda il Papa, derivano i diritti umani.
Nel momento in cui riconosco a chi mi sta davanti i miei stessi diritti nasce anche la solidarietà, la cura, la salvaguardia del Creato.
Cultura della cura significa sentirci “custodi” dell’altro?
Il Papa si rifà all’Antico Testamento, quando il Signore chiede a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Se alla risposta di Caino – “Sono forse io il custode di mio fratello?” – sostituiamo il punto interrogativo con il punto esclamativo, abbiamo la verità:
io sono il custode di mio fratello e se mio fratello ha fame, gli debbo dare da mangiare, se gli vengono tolti i diritti più elementari, io non posso restare indifferente. Il mio stesso impegno nella Terra dei fuochi rientra in questa cura e custodia dell’altro.
Non posso limitarmi a celebrare i funerali – importantissimi per noi credenti – di un bambino di 10 anni, di un ragazzo di 16 anni, di una mamma di 35 anni, di un papà di 38 anni, morti di cancro. Devo arrivare alla radice del male per combatterlo. Il Papa ha detto che ci vuole la bussola per imprimere una rotta veramente umana, solamente allora possiamo diventare profeti e testimoni, aiutando le persone a incontrare Gesù.
Il Papa segnala anche la crescita di nazionalismo, razzismo, xenofobia, guerre e conflitti. Ciò avviene non solo ai vertici, ma anche tra la gente comune. Come combattere tutto questo?
In tutta la Bibbia c’è una parola che ritorna. Ad Abramo viene detto di “non temere”, nell’annunciazione l’angelo dice alla Madonna di “non temere”, san Giuseppe in sogno dall’angelo viene invitato a “non temere”. San Giovanni Paolo II iniziò il suo ministero petrino dicendo: “Non abbiate paura”.
Sono convinto che la nemica dell’amore e della solidarietà è la paura.
Quando questa paura viene cavalcata per motivi poco nobili non tutti hanno gli strumenti per decodificare questi messaggi, per leggere la realtà e capire quello che succede. Quando c’è un malessere sociale e arriva qualcuno che dice di risolvere tutto, la gente che ha paura ci crede, ci casca. Ma i discorsi demagogici e contro i diritti degli altri non attecchiscono con le persone che più vogliono bene a Gesù.
Non dimentichiamo le bellissime testimonianze di solidarietà che si sviluppano intorno alla capanna di Betlemme.
Solo nella mia parrocchia per Natale abbiamo consegnato 300 pacchi ad altrettante famiglie povere, in un quartiere così piccolo.
Come educare alla cultura della cura?
Il Papa dice che tutto comincia in famiglia, ma, mi chiedo, quale famiglia oggi? La nostra società partorisce sempre di più individui e meno persone. Alla società consumista fa comodo così. Nel momento in cui ci troviamo soli alla fine della vita, ecco che fa capolino l’idea di mettere fine a questa vita prima, di farsi aiutare a morire, così si arriva al suicidio assistito e all’eutanasia. Questo in una famiglia cristiana non potrebbe mai accadere. Quando c’è un momento di sconforto ci si aiuta, chi più ha più dà. Il Papa ci ha detto che questo compito, oltre che della famiglia, è della scuola, dell’università, delle religioni. La nostra religione è una miniera, basti pensare al Vangelo, a Gesù Buon pastore.
Quando vanno a chiedere a Gesù qual è il comandamento più grande, Gesù risponde con due, perché sono collegati: l’amore per Dio e l’amore per il prossimo come se stessi.
Per noi cristiani non è secondario il fatto che quando moriremo il Signore chiederà a ciascuno: “Mi hai riconosciuto quando avevo fame e sete, ero nudo, ero forestiero, ammalato, in carcere? Hai riconosciuto nel fratello che bussava alla tua porta il mio volto? Sì, bene, entra, benedetto dal Padre mio”. Gesù non dice: “Quello che hai fatto all’altro è come se lo avessi fatto a me”, piuttosto: “Quello che hai fatto all’altro lo hai fatto a me”.
Un auspicio per il 2021.
Da questa pandemia prima o poi ne usciremo, anche se temo che durerà più a lungo di quello che noi crediamo. Il Papa ci ha avvisato: non è detto che ne usciremo automaticamente migliori. Io prego così, come ho fatto una volta dall’altare:
“Signore, se tu sai che ne usciremo migliori, per favore poni fine a questa pandemia, facci uscire da questo flagello. Se tu sai che ne dobbiamo uscire peggiori, non lo permettere”.
Il mio auspicio è che niente vada perduto del dolore vissuto: tanti morti, la sofferenza immensa di non essere accanto ai propri cari che si spengono in ospedale, le tante difficoltà che stiamo affrontando.
Il Signore ci faccia la grazia di uscire migliori da questo flagello, accolga nella sua gloria chi ha trovato la morte in un modo così doloroso, in solitudine, e dia a noi, se saremo ancora tra i viventi alla fine della pandemia, la grazia di riconoscerci persone in relazione con Dio, i fratelli e il Creato.