Violenza negli ospedali. Fiasco: “Riportare fiducia e collaborazione attiva tra i pazienti e la comunità che si adopera per la cura sanitaria”
“Cambiamo il lessico, aumentiamo pure la sicurezza, ma soprattutto potrebbe essere efficace costruire una rete di presenza in funzione di mediare il conflitto nei luoghi di cura e specialmente nei Pronto soccorso”, osserva il sociologo
Episodi violenti nei Pronto soccorso e nelle aree di degenza degli ospedali. Un fenomeno sempre più diffuso e inquietante. “È un problema internazionale, dalla Cina alla Francia fino all’Italia. Siamo stati colpiti nel nostro Paese da episodi di cronaca avvenuti in una città già stigmatizzata come Foggia o nei nosocomi del Napoletano e considerati come un aspetto di un’arretratezza, riflesso di una situazione di degrado sociale, economico, di emarginazione culturale, di tribalismo. Ma il fenomeno non si può liquidare così”, commenta al Sir il sociologo Maurizio Fiasco.
Professore, si tratta di un fenomeno complesso?
Sullo sfondo abbiamo un’angoscia per i problemi della salute paradossale perché oggi in tutti i Paesi sviluppati in Europa c’è un servizio pubblico, eppure fino a metà Novecento solo chi aveva i soldi poteva curarsi e l’idea del diritto alla tutela della salute del cittadino circolava solo in ambienti illuminati. In Italia il diritto alla salute esiste solo dalla Costituzione del 1948. E da quest’ultima al Servizio sanitario nazionale sono passati trent’anni per rendere effettivo l’articolo 32 della Costituzione.
Questo evidenzia che i motivi di essere angosciati quando si hanno problemi di salute erano infinitamente superiori in passato, eppure allora episodi di violenza non accadevano. Perché oggi succede?
Per l’insofferenza della gente, perché non c’è più rispetto? O c’è qualcosa di più profondo che si è incrinato nel rapporto tra salute e società, nell’angoscia che si crea quando un nostro congiunto affronta un pericolo per la propria vita? O, ancora, c’è un ritorno indietro nella relazione tra Servizio sanitario e persone? È un fenomeno multidimensionale dove agiscono più fattori. E deve essere affrontato in modo serio e organico.
Cosa la colpisce del fenomeno?
Nel 2023 ci sono stati 5mila casi in Lombardia, nella regione che ha la più ampia rete di ospedali. Paradossalmente ci sono stati più episodi al Nord che al Sud,
casi anche in Emilia Romagna, dove la sanità funziona, come a Roma dove la situazione sanitaria è più in sofferenza, in Sicilia, in Campania, in Puglia. C’è anche un altro aspetto da considerare: le conseguenze sul personale di questi atti di violenza, che non sono solo le lesioni che si possono subire nell’episodio, ma qualcosa che agisce profondamente nel vissuto, con effetti psicologici. Parliamo di personale sanitario – medici, infermieri – che durante la giornata si misura con la sofferenza delle persone. Quando finisce l’orario di lavoro, le vicende della giornata continuano ad avere degli effetti su chi ha operato, con disturbi psicologici, stress, senso di inadeguatezza. Da un lato, ci sono i familiari del paziente che hanno l’aspettativa che tutto funzioni e che qualsiasi problema si risolva. Dall’altro, ci sono persone che emotivamente, psicologicamente, per tutto l’anno e per molte ore della giornata, assistono allo spettacolo della sofferenza estrema e a fallimenti perché non sempre è possibile salvare la vita umana, con contraccolpi sul loro morale.
Cosa bisogna fare?
Il fenomeno è molto esteso e riguarda, come dicevamo, anche le regioni sviluppate che hanno un buon Servizio sanitario, perciò bisogna riflettere sullo scarto che si è creato tra le aspettative di una parte della popolazione, ovviamente quella più svantaggiata sul piano culturale, più avvezza anche a reagire più vivacemente, e la salute. Bisogna andare alle radici di questa crisi, vedere come ristrutturare il rapporto tra gli utenti e il servizio di tutela della salute.
L’immagine della sanità andrebbe ricostruita.
Rispetto a una sofferenza del personale che opera nei nosocomi e a un’angoscia che travalica in forme primitive di reclamo, fondato o infondato che sia, che si esprime in forme violente, ci deve essere una mediazione tra le due istanze. Va bene cercare una deterrenza, si inaspriscano le pene, si mettano tutte le telecamere che si vogliono, si rafforzino i presidi di polizia, ma è una risposta reattiva che non coprirà tutto il campo. Occorre, a mio avviso, adottare un insieme di misure che abbiano un’ispirazione comune: riportare una fiducia e una collaborazione attiva tra i pazienti e la comunità che si adopera per la cura sanitaria.
Concretamente come si deve operare?
Occorre prendere in carico la condizione di chi opera in questi luoghi, creando un servizio di supporto, e prendere in carico e modificare l’aspettativa che i parenti dei pazienti hanno verso il Servizio sanitario nazionale perché comprendano le ragioni di chi opera, togliendo tutti i fattori di distorsione che si sono aggiunti in questi anni.
Bisogna bandire l’espressione “malasanità”, che fa danni irreparabili e sistemici,
ma dire anche no a chi specula sulla sofferenza che provano quanti hanno perso una persona cara per le cure sanitarie alimentando uno spirito di rivincita e di risarcimento, facendosi dare mandati per cause spesso infondate ma che comunque mettono sotto accusa il Servizio sanitario, costringono i sanitari a difendersi, ma, ancor peggio, distorcono le metodiche di presa in carico delle persone e di selezione della cura.
In che modo avviene ciò?
Il sanitario ha due preoccupazioni oggi: la prima è scegliere l’intervento più appropriato, la seconda è non essere accusato di aver sbagliato. La seconda preoccupazione distorce la decisione sull’intervento più appropriato.
Tutto ciò che aumenta la conflittualità tra cittadini e sanitari è deleterio innanzitutto per i cittadini stessi, oltre a essere ingiusto per chi opera nel Servizio sanitario pubblico. Bisogna mettere al bando tutto un castello speculativo che ha fatto dilatare la medicina difensiva oltre il dovuto. Bisogna che i decisori pubblici, gli opinion leader, persone di cultura e di scienza spieghino in che cosa consiste la decisione sanitaria: non possiamo sostituire la scelta, compiuta in scienza e coscienza, con una meccanica della scelta terapeutica, che produce più danni di quelli che dovrebbe evitare.
Bisogna riconoscere il diritto-dovere del sanitario di assumersi il carico di una decisione razionale in condizioni di incertezza.
Quello che dobbiamo pretendere è che lo faccia con serietà, con scrupolo, con coscienza, applicandosi al meglio, ma non possiamo pretendere dal sanitario la soluzione matematica. Infatti, siamo in un luogo dove le variabili che determinano l’esito positivo o negativo nell’approccio di salute sono tante. La salute non è un algoritmo. La scelta dell’approccio può essere supportata da tecnologie raffinate, ma sarà sempre una decisione razionale in condizione di incertezza perché c’è sempre una trappola dei meccanismi cognitivi della persona che – per quanto possa essere ridotto il rischio – permarranno sempre. Ogni anno avvengono decine di migliaia di errori cognitivi in campo sanitario, anche mortali, ma ridurre il margine di errore non può essere perseguito con misure intimidatorie o con la meccanica di analisi tecniche.
Cosa consiglierebbe?
Innanzitutto, cominciamo a cambiare il lessico, perché la terminologia non è una sovrastruttura, ma determina i pensieri che a loro volta determinano i comportamenti, che determinano il senso comune.
Al personale che ha una professionalità orientata alla cura è necessario fornire anche una preparazione nel gestire i momenti critici, di impatto, di conflitto con utenti e cittadini che danno luogo a reazioni inaccettabili ed esagerate. Ma, soprattutto,
costruire una rete di presenza in funzione di mediare il conflitto nei luoghi di cura e specialmente nei Pronto soccorso potrebbe risultare efficace.
Dovremmo avere una figura professionale capace di mediare il conflitto, gestire le situazioni critiche, saper comunicare, saper smontare l’escalation della violenza, saper esprimere messaggi di rassicurazione efficace. Per gestire queste crisi, dal momento che non sono condotte preordinate, ma che si formano sul momento, servono dei corsi con simulazioni, considerando tutti gli aspetti di una relazione critica, la comunicazione non verbale, la collocazione nello spazio, la predisposizione di locali dove mediare con i parenti del paziente. Questa figura di mediazione potrebbe essere rappresentata da un professionista o venire dal volontariato sanitario, dalla comunità dei clinici. Si potrebbe pensare a una rete dove ci sono alcuni specialisti e i servizi della sicurezza pubblica; non dimentichiamo, infatti, che la polizia ha dall’ordinamento un compito istituzionale di mediazione, di composizione dei privati dissidi e questa funzione va riportata al centro, sostenuta anche dalla presenza di figure professionalizzate nella gestione del conflitto.