Oltre la storia del bimbo cinese "restituito" dagli influencer (un fallimento adottivo)

Fari puntati sulla coppia statunitense che ha fatto marcia indietro due anni dopo averlo adottato: “Non eravamo pronti, ci abbiamo provato ma ora è meglio così”. Al di là del singolo caso, un fenomeno poco studiato e con alcuni risvolti inquietanti. Che preoccupano anche il Dipartimento di Stato

Oltre la storia del bimbo cinese "restituito" dagli influencer (un fallimento adottivo)

Dalla Cina agli Stati Uniti. Compreso un amaro e non pianificato viaggio di ritorno. Suscita polemiche e riflessioni la storia dell’adozione di un bambino con autismo, partito dall’estremo Oriente e arrivato due anni fa in una casa dell’Ohio, quella di Myka Stauffer e del marito James. La coppia ha un certa esposizione mediatica: il profilo Youtube di lei è seguito da oltre 700 mila iscritti, con milioni di visualizzazioni. Il canale promette “ogni settimana” nuovi video sulla vita familiare, l’organizzazione domestica, il come tenere in ordine la casa e così via: insomma, sulla vita da mamma. Perché lei, Myka, di figli ne ha quattro.

Due anni fa, erano diventati cinque: a quelli biologici si era infatti aggiunto Huxley, bambino cinese di quattro anni con una diagnosi di autismo, il cui arrivo era stato puntualmente condiviso con i fan: l’attesa, l’arrivo,  i primi giorni, le settimane, i mesi. Passo passo, sono cresciute anche le visualizzazioni e le inserzioni pubblicitarie. Pochi giorni fa, la storia si rompe: i genitori “restituiscono” il bambino, che ritorna in Cina, affidato ad un’altra famiglia. Le critiche non si fanno attendere: in breve, avete usato il piccolo solo per apparire e ora che vi siete stancati l’avete rispedito indietro, come fosse un pacco qualsiasi. In 

 di due giorni fa (con due milioni di visualizzazioni), la coppia ha provato a spiegarsi: “Non eravamo pronti, lui aveva molte esigenze di cui non eravamo a conoscenza. Abbiamo cercato di soddisfare i suoi bisogni e di aiutarlo il più possibile: non c’è stato un solo minuto in cui non abbiamo cercato di fare il nostro meglio. Gli ultimi due mesi sono stati la cosa più difficile che avremmo mai immaginato. Non abbiamo adottato Huxley solo per mostrarlo pubblicamente: mostravamo il 5% della nostra vita con lui, le restanti lotte rimanevano private. Molti professionisti ci hanno detto che aveva bisogno di aiuto: la nuova mamma ha una formazione medica professionale e una casa attrezzata a dovere. Speriamo che se ne prenda cura come il piccolo merita”. “Io – dice Myka - mi sento un fallimento come mamma”. Parole che non hanno placato i commenti e le polemiche.

Il fallimento adottivo

Al di là dell’aspetto mediatico, che aggiunge ulteriore problematicità alla vicenda, la storia del piccolo Huxley e della sua (ex) coppia di genitori adottivi statunitensi è a tutti gli effetti configurabile come un “fallimento adottivo”. Una realtà da sempre particolarmente ostica da raccontare e definire, perché fenomeno solitamente sommerso e quasi mai affrontato in termini di ricerche e di statistiche ufficiali.

Il fallimento adottivo è un fenomeno complesso, caratterizzato da una forte sofferenza relazionale che, nel momento di rottura, comporta la separazione definitiva del bambino dalla famiglia adottiva, sia prima sia dopo che l’adozione è stata legalizzata. Di fatto il bambino precedentemente adottato viene riaffidato o ricollocato altrove, un fenomeno che ha un impatto molto grave su tutti i soggetti coinvolti: per il bambino, in particolare, il fallimento dell’adozione rappresenta un secondo trauma che si aggiunge a quello originario dell’abbandono. E’ noto che il rischio di un fallimento sia più alto nelle fasi iniziali del percorso, o nel momento in cui il bambino diventa adolescente, ma mancano ricerche ampie, approfondite e recenti sul tema.

I (POCHI) DATI EUROPEI: 2% DI FALLIMENTI?

I (pochi) dati e le (poche) ricerche sul tema indicano un’incidenza molto variabile sul totale delle adozioni. In Italia, alcune stime basate sulle segnalazioni che arrivano dalle varie Procure per i minorenni farebbero valutare i fallimenti intorno al 2 o 3 per cento del totale delle adozioni. Nel 2013 un report della regione Emilia Romagna, basato su un arco di tempo decennale (2004-2013) segnalava almeno 87 fallimenti adottivi, e stimava al 2,86% (sugli anni 2017-2013) la percentuale sul totale dei casi. Non sono distanti da queste stime altri studi europei: in Spagna un’analisi (Jesùs Palacios, Università di Siviglia) stima negli anni 2003-2012 un fallimento del 2,13% delle adozioni nazionali (e molto meno, lo 0,31%, delle adozioni internazionali). In ogni caso, come detto, nel nostro paese il minore che ha vissuto questa esperienza viene inserito in una struttura residenziale di accoglienza (con eventuale nuovo percorso di affidamento e adozione).

STATI UNITI, TUTTA UN’ALTRA COSA? “QUASI UN BAMBINO SU CINQUE”

Diversa appare invece, e torniamo alla situazione negli Stati Uniti, con un contesto sociale molto diverso, fatto di normative statali molto differenti, linee guida federali poco chiare e una certa liberalizzazione delle procedure che porta nei fatti ad un numero molto alto di situazioni adottive che si risolvono in un fallimento. Con (anche se, si badi bene, non è il caso concreto di Huxley, che è invece tornato in Cina) la nascita di veri e propri luoghi virtuali in cui i bambini rifiutati possono essere “ricollocati” o, altrimenti detto, in cui i genitori che “gettano la spugna” possono trovare delle nuove famiglie per i bambini che stanno per lasciare.

IL REHOMING

A parlarne, qui in Italia, nell’agosto 2018, era stato il quotidiano Avvenire, che in un’inchiesta in due puntate (la prima e la seconda) firmata da Elena Molinari, riportava stime del governo (Dipartimento di Stato) Usa, secondo cui “quasi un bambino su cinque” viene abbandonato dagli adulti che l’hanno adottato. Stime anche qui molto poco puntuali, ma nettamente più alte di quelle europee: falliscono fra il 10% e il 25% delle adozioni, con punte del 30% per quelle internazionali. Numeri che potrebbero però raccogliere varie casistiche, comprese quelle situazioni di affidamenti pre-adottivi che non si configurano affatto come veri e propri fallimenti adottivi.
A colpire, nel racconto statunitense, è come spesso accade soprattutto l'abuso, rappresentato dalla pratica del rehoming, peraltro vietata in alcuni Stati, tramite la quale è possibile firmare una dichiarazione autenticata con la quale affidare il proprio bambino alle cure di un altro adulto. Pensata per affidamenti temporanei, la possibilità viene talvolta sfruttata in modo ben più largo, fino a disegnare una sorta di vera e propria attività di ricerca di “nuovi genitori”, attuata anche tramite agenzie specializzate sorte sul web per mettere in collegamento “domanda” e “offerta”.  La pratica è ovviamente molto criticata (anche perché non sempre si forniscono rassicurazioni sulla idoneità dei “nuovi genitori”, e i singoli casi finiti in modo tragico, con bambini oggetto di violenze domestiche, stanno lì a dimostrarlo), ma nei fatti ha conquistato un certo grado di accettazione sociale. Da assoluta eccezione, la “restituzione” del bambino adottato è diventata più "normale". “E le ragioni citate dalle agenzie governative – scriveva Avvenire due anni fa - sono sempre le stesse. E per lo più banali. Mamma e papà non si erano resi conto delle difficoltà di farsi carico di un bambino con un passato difficile. Oppure mettono al mondo un paio di figli biologici e all’improvviso si accorgono che quel bambino ‘non loro’ è di troppo. O semplicemente, ‘qualcosa non funziona fra di noi’”.

ADOZIONI USA, IL DIPARTIMENTO DI STATO: "CONSAPEVOLI"

Guardando ai numeri ufficiali, e tralasciando quelle nazionali, il Dipartimento di Stato Usa pubblica ogni anno una relazione sullo stato delle adozioni internazionali negli Usa. In quella relativa al 2019 si parla di 2971 adozioni internazionali finalizzate, provenienti soprattutto da Cina, India, Ucraina e Colombia. Il report dà conto anche di otto casi in cui si è verificata l'interruzione di un collocamento pre-adottivo, e viene anche indicato che sono stati censiti 104 casi di bambini di altri paesi che in seguito a scioglimento di un'adozione sono stati affidati alla custodia delle autorità pubbliche di previdenza sociale.

Nel report viene però segnalato il fatto che i paesi stranieri da cui arrivano i bambini adottati dalle famiglie statunitensi segnalano sempre più come una preoccupazione il fatto che non vi siano delle informazioni su cosa accada dopo l'adozione, insomma di come prosegua la vita familiare dei bambini arrivati negli Usa. E in particolare, il Dipartimento fa presente di essere consapevole della necessità di una stretta collaborazione con le autorità statunitensi "in merito al trasferimento non regolamentato della custodia dei bambini dai genitori adottivi a terzi, siano essi parenti, amici o addirittura estranei": una pratica che "pone seri problemi di sicurezza per i bambini adottati", oltre a "lasciare aperti strascichi legali riguardo alla posizione dei genitori adottivi". Anche al Dipartimento di Stato, insomma, sanno che, per il bene di quei bambini, occorrerebbe un'attenzione maggiore.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)