Brasile, vaccino Covid-19: “Le élite se lo accaparrano e i popoli indigeni sono abbandonati”
Ardigò Martino, referente della campagna “Primary Health Care Now or Never”, racconta: “Il Brasile è la più grande macchina di vaccinazione al mondo, con Case della salute distribuite capillarmente su tutto il territorio. Il problema oggi è che le dosi non stanno arrivando, in particolare alle fasce più vulnerabili”
“Il Brasile è la più grande macchina di vaccinazione al mondo, con unità di salute che arrivano ovunque e che hanno una capillarità totale. Il problema è che, in questo momento, il vaccino anti-Covid non sta arrivando: i paesi più ricchi sono predatori, Bolsonaro si aspettava che Trump gli garantisse gli approvvigionamenti ma è rimasto fregato”. Ardigò Martino, medico docente presso l’Università federale del Mato Grosso do Sul, in Brasile, e referente della campagna “Primary Health Care Now or Never”, fa luce sui punti di forza e di debolezza del sistema di salute brasiliano, uno dei più sviluppati rispetto alla decentralizzazione dei servizi e alle cure primarie: su tutto il territorio infatti sono ben radicate le Case della salute con gli agenti comunitari di salute, figure di mediazione con la comunità, su cui si era investito molto fino al governo Dilma Rousseff.
“Oggi c’è stato un grande definanziamento del sistema sanitario, che ha avuto il suo culmine con Bolsonaro – spiega Martino –. Nonostante ciò, il Brasile è ancora efficientissimo nelle campagne vaccinali, con sale vaccinazioni ad hoc collocate in ogni Casa della salute, anche nelle aree più remote. In Amazzonia, addirittura, le Case della salute hanno creato unità di vaccinazione fluviali, per arrivare nei villaggi via canoa. Ma il vaccino anti-Covid scarseggia e così le élite cercano di accaparrarselo, truccando le carte e saltando la fila: ci sono stati casi molto eclatanti di distorsioni del programma vaccinale, in cui il vaccino è arrivato prima di tutto ai familiari dei politici e dei medici, soprattutto in aree dove ci sono le disuguaglianze più forti. A rimetterci sono le fasce più vulnerabili, in primis gli anziani e le popolazioni indigene, che sono state completamente abbandonate. Si tratta di comunità che vivono isolate e che hanno un sistema immunitario più suscettibile: nei primi mesi della pandemia sono morti tanti capi tribù e tanti curanderos, i guaritori tradizionali. Lì il vaccino proprio non arriva”.
Il Brasile certo non può essere preso come modello nella gestione dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia: l’attuale presidente Jair Bolsonaro fin dai primi mesi ha detto che il Covid era solo una “gripesina”, una "influenzuccia", sminuendo l’entità del problema. È entrato in conflitto con il suo ministro della salute perché non era d’accordo nel fare il distanziamento sociale, la quarantena, il lockdown, fino a che il ministro non si è dimesso e ora il suo incarico è ricoperto da un militare. “Quando si è visto che la pandemia non era un’influenzuccia, le redini sono state prese dai governatori dei vari stati, che ora si stanno attrezzando anche per trovare il vaccino – racconta Martino –.
Gli stati del nord-est hanno fatto un consorzio per cercare soluzione comune, e stanno importando il vaccino russo. Lo stato di San Paolo ha investito pesantemente sulla produzione del vaccino cinese, mentre lo stato di Rio de Janeiro ha puntato su quello di Oxford”.
In questa situazione, le regioni in cui i servizi territoriali e la primary health care (Phc) erano più scarsi hanno sofferto di più, mentre le aree dove si era investito maggiormente sulle cure primarie stanno avendo maggiore tenuta. “Nei luoghi dove l’attenzione primaria era più sviluppata, anche nelle condizioni avverse create dal definanziamento, i professionisti della salute hanno saputo farsi le domande giuste e trovare delle risposte – continua Martino –. Emblematico è il caso di Rio de Janeiro, dove nonostante il governatore e il sindaco avessero idee molto vicine a Bolsonaro, entrambi arrestati per corruzione, il sistema di Phc ha tenuto ed è stato fatto un lavoro spettacolare nella gestione dei contagi. Nelle favelas come Alemao e Penha, quartieri pericolosissimi in mano al narcotraffico, le unità di salute hanno lavorato con le comunità e le associazioni, definendo insieme il problema e ipotizzando una possibile soluzione, mettendola in pratica e aggiustandola man mano in corso d’opera. In alcuni casi si sono autocostruiti un hotel covid. In questo processo, un ruolo fondamentale l’ha avuto il lavoro di equipe e in rete, come sempre accade quando si parla di Phc: comunità, lavoratori comparto sanitario, gestori e politici hanno collaborato per trovare insieme risposte specifiche per ogni contesto”.
È proprio di Phc e del modello brasiliano di decentralizzazione dei servizi sanitari che Ardigò Martino parlerà il 27 febbraio in occasione del seminario “Educazione permanente e ricerca-formazione-intervento”, nell’ambito del laboratorio italo-brasiliano. “C’è una grande differenza tra un sistema basato sugli ospedali e un sistema basato sul territorio – conclude Martino –. La Phc prevede il coinvolgimento di molti attori, non solo sanitari: la Casa della salute è in relazione con la scuola, la chiesa, il comune, i servizi sociali, la rete assistenziale… Se nei sistemi basati sull’ospedale si tende a standardizzare gli interventi, con la Phc bisogna vedere quali sono i problemi specifici di un certo contesto: ad esempio, gestire il Covid in una grande metropoli è una cosa, gestirlo in un villaggio dell’Amazzonia è completamente diverso. Ecco perché, per la gestione di questa emergenza, è stata fondamentale è la decentralizzazione”.
Alice Facchini