Armenia. Minassian: “Siamo esperti nel soffrire ma capaci di risorgere sempre”
L’unità della Chiesa e del popolo armeno, la testimonianza dei cristiani in “tempi difficili e bui”, il lavoro instancabile per la pace. Queste le direttrici indicate da Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian. Il 23 settembre scorso il Sinodo dei vescovi della Chiesa patriarcale di Cilicia degli Armeni, convocato a Roma, lo ha eletto capo della Chiesa di Cilicia degli Armeni. Un popolo sparso in tutto il mondo, costretto da eventi spesso tragici della storia, alla diaspora
“Niente è cambiato. I titoli non mi dicono assolutamente niente. L’essenziale è la missione e la responsabilità”. Così Sua Beatitudine Raphaël Bedros XXI Minassian commenta al Sir la sua elezione a nuovo patriarca di Cilicia degli armeni e l’inizio del nuovo incarico. Si traferirà presto a Beirut, in Libano, e più precisamente a Bzoummar, dove ha la sede il Patriarcato di Cilicia degli Armeni, partendo quindi da Yerevan, la capitale armena. “Ma non lascio mai i miei fedeli. Mai”, precisa subito. “Cambia solo la residenza”.
Come si appresta a vivere questo nuovo incarico?
L’essenziale non è il titolo ma la missione. Camminiamo in tempi difficili e bui, sfidati dal male che c’è nel mondo. La mia missione è trovare sempre una via per continuare ad andare avanti verso Cristo con rinnovamento e dare testimonianza della vocazione cristiana. Lo facciamo con tutte le nostre debolezze e incapacità ma consapevoli che non siamo noi a determinare il percorso. Noi facciamo l’1% con le nostre forze.
Lei è stato chiamato ad essere padre e guida degli armeni. Un popolo sparso in tutto il mondo, costretto alla diaspora. Di cosa ha bisogno oggi il popolo armeno?
Della preghiera, prima di tutto. Siamo Chiesa e quindi chiamati tutti, sacerdoti e laici, popolo di Dio, a vivere con la presenza di Cristo in mezzo a noi. E, nella preghiera, gli armeni chiedono l’unità della Chiesa armena.
Le differenze che ci dividono sono punti secondari, pochissimi rispetto a quanto invece condividiamo. Siamo fratelli. Siamo un’unica Chiesa.
Il 27 settembre di un anno fa, il Nagorno Karabakh (Artsakh) è stato colpito dalle forze azere. 44 giorni di guerra e di indiscriminati bombardamenti sulla popolazione civile. Com’è la situazione oggi e quale appello vuole lanciare?
I 44 giorni di Nagorno Karabakh sono una replica dei 40 giorni del Mussa Dagh che narra gli eventi avvenuti nel 1915, con il massacro degli armeni cristiani. Quanto avvenuto nel passato si è ripetuto nella storia di oggi. 40 giorni di guerra e attacchi indiscriminati mentre il mondo stava a guardare. Siamo la Nazione che ha pagato il prezzo più alto di questa tragedia.
Il mio appello è e continuerà ad essere questo: la guerra è l’espressione più evidente della debolezza dell’uomo e della sua incapacità di parlare, dialogare, trovare soluzioni, nel rispetto dei diritti degli altri.
Se siamo tutti figli di Dio, siamo fratelli tra noi, chiamati da Dio a vivere in pace su questa terra. Noi, invece, la stiamo distruggendo. Il mio appello è ritornare alla coscienza umana, alla coscienza di pace che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo.
Nella Lettera per la concessione dell’Ecclesiastica Communio al nuovo patriarca, il Papa scrive: “Conosciamo il popolo armeno come esperto nel soffrire a motivo delle molteplici prove lungo oltre 1.700 anni di storia cristiana, ma anche per la sua inesauribile capacità di fiorire e portare frutto”.
È la vocazione speciale del popolo armeno: essere esperti nel soffrire ma capaci sempre, anche nelle pieghe più oscure della sua storia, di risorgere e portare frutto. Io dico sempre: come Dio ha scelto il popolo ebreo per preparare la venuta di Cristo, così ha scelto il popolo armeno per dare testimonianza della sua presenza nel mondo e della sua venuta tra gli uomini per salvarci.