Salmo 141. Il salmista indaga il suo cuore e chiede a Dio di soccorrerlo anche con l’aiuto di una parola amica

L’amore che reciprocamente si nutre gli uni per gli altri crea una rete concreta di solidarietà e spesso possono essere proprio i più piccoli con le loro parole e i loro atteggiamenti ad indicare una via di ravvedimento per i più grandi.

Salmo 141. Il salmista indaga il suo cuore e chiede a Dio di soccorrerlo anche con l’aiuto di una parola amica

Ci sono giorni – e l’estate spesso ne è protagonista – in cui assaporiamo davvero la bellezza della vita; periodi in cui i problemi, pur non mancando, paiono tutti di dimensioni abbordabili. Poi, invece, anche senza particolari segni premonitori, l’animo si rannuvola e l’angoscia, anche per le più piccole cose, prende il sopravvento. Di fronte a questo “male oscuro”, non possiamo che fare nostre le parole del Salmo 141: “Signore, a te grido, accorri in mio aiuto; porgi l’orecchio alla mia voce quando t’invoco. La mia preghiera stia davanti a te come incenso, le mie mani alzate come sacrificio della sera” (vv. 1-2).
Tu hai detto che preferisci un cuore contrito alle grasse vivande e che per te questo è il sacrificio più gradito; ecco, allora accogli questa sofferenza, questo non senso, questo non sapere perché e cosa succederà, accogli questa stessa paura e trasformala in preghiera che possa avere il profumo dell’incenso. Io so che non hai bisogno di un tempio perché ti si rivolga ogni richiesta di intercessione; so che ascolti la mia voce quando è un grido d’aiuto, ma anche se è solo un lamento sussurrato. Anzi, anche quando non escono più parole dalla mia bocca, perché il fiato è mozzato dall’angoscia, o soffocato dal pianto, a te basta vedere le mie mani alzate per capire la prostrazione di un tuo figlio; tu solo sai comprendere quello che provo, prima ancora che riesca a descriverlo.
In questo dialogo, “Poni, Signore, una guardia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra. Non piegare il mio cuore al male, a compiere azioni criminose con i malfattori: che io non gusti i loro cibi deliziosi” (vv-3-4). Ecco la richiesta che il salmista e noi con lui poniamo al Signore: quella di non farci cadere nella tentazione di imprecare, di non riconoscerlo più come il nostro Dio, per il fatto che non ci esaudisce nei tempi che vorremmo. È dalle labbra, dalla bocca – lo ha detto anche Gesù – che escono le maldicenze, le parole negative, i giudizi scomposti e quando questi sono pieni di ingiusto livore o di delusione nei confronti del Padre che è nei cieli, presto divengono offese anche per il fratello che non si riconosce più come tale. Oppure voltiamo lo sguardo dall’altra parte quando qualcuno compie un’ingiustizia e ci nascondiamo dietro l’ipocrita criterio di non poter giudicare nessuno, pur sapendo che è il peccato che va riconosciuto, senza arrogarsi il diritto di condannare il peccatore. Davvero, Signore, non abbandonarci nella tentazione, così come ogni giorno ripetiamo durante l’Eucarestia con le parole che Cristo ci ha insegnato.
Ancora più profondamente il salmista indaga il suo cuore e chiede a Dio di soccorrerlo anche con l’aiuto di una parola amica: “Mi percuota il giusto e il fedele mi corregga, l’olio del malvagio non profumi la mia testa, tra le loro malvagità continui la mia preghiera” (v. 5). È un’ammissione della propria debolezza, sapere di aver bisogno del consiglio, della guida, anche del rimprovero fermo di un amico o di un padre nella fede, le cui indicazioni siano chiare e non si confondano con le lusinghe di chi vuole portarci sulla cattiva strada. In famiglia questa correzione fraterna non è necessariamente solo degli sposi fra loro, o dei genitori nei confronti dei figli. L’amore che reciprocamente si nutre gli uni per gli altri crea una rete concreta di solidarietà e spesso possono essere proprio i più piccoli con le loro parole e i loro atteggiamenti ad indicare una via di ravvedimento per i più grandi.
Per chi compie azioni malvagie, invece, vi è una sorta di condanna condensata in queste espressioni: “Siano scaraventati sulle rocce i loro capi e sentano quanto sono dolci le mie parole: Come si lavora e si dissoda la terra, le loro ossa siano disperse alla bocca degli inferi (vv. 6-7). Ancora una volta, pur nella crudezza dell’immagine creata dal salmista, poniamo mente al fatto che il credente ebreo non si fa mai giustizia da solo, ma affida all’imperscrutabile giudizio di Dio anche la persona piè esplicitamente votata al male. E poi, in conclusione, il dialogo torna più intimo: “A te, Signore Dio, sono rivolti i miei occhi; in te mi rifugio, non lasciarmi indifeso. Proteggimi dal laccio che mi tendono, dalle trappole dei malfattori. I malvagi cadano insieme nelle loro reti, mentre io, incolume, passerò oltre” (vv. 8-10). C’è una sorta di speranza finale da parte chi confida in Dio, la speranza che come questa preghiera si recita al calare della sera, così, al termine della giornata, ci sia sempre data la possibilità di aver compiuto, per Grazia, anche quella sola opera di bene che ci permette di evitare le trappole e il laccio che ogni giorno possono essere posti sulla nostra strada.

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Fonte: Sir