Le tante morti e risurrezioni di Francesco d'Assisi
Francesco di Assisi ebbe un rapporto stretto, oserei direi strettissimo, con «sora nostra morte corporale».
È la storia a dircelo e dimostrarcelo. Al punto che, già in gioventù, la sua irruenza di affermazione sociale e una certa narrazione epico-cavalleresca in cui era cresciuto (mito di re Artù, per intenderci), lo aveva visto prima buttarsi nella mischia tra i “majores e minores” assisani. E poi qualche anno dopo, scontrarsi corpo a corpo con i nemici di Perugia, cadendovi prigioniero. L’ardore delle prime crociate lo spinse qualche anno dopo al seguito di un cavaliere, fin oltre i confini umbri per ritornare presto ad Assisi (i motivi non li conosciamo) quasi da sconfitto, per iniziare la sua rivoluzione personale. Quanto basta per capire come fin da giovane Francesco di Bernardone avesse guardato più volte in faccia la morte. La sua stessa discussa conversione (le liti con il padre) è possibile quindi leggerla come una morte e risurrezione. Da una condizione terrena a una più elevata. Una rigenerazione la sua che ha radici psicologiche profonde, di uno che dall’idealismo ne esce sconfitto per non dire morto, trovando nella spiritualità quel riscatto che l’ha afflitto dalla giovane età – e come vedremo – fino all’ultimo dei suoi giorni. Deve aver sfidato la morte più volte anche nel suo peregrinare, visto che si parla dell’incontro con un feroce bandito-lupo. Devono avergli palesato il “rischio mortale”, anche quando nel 1219 lo si vede oltrepassare le linee crociate, per incontrare il nemico efferato che era il sultano mussulmano. Rischiò seriamente, perché cristiano, di perdere la testa, mentre il resto è storia che conosciamo.
Vi fu però una “morte” più sottile e lenta, che accompagnerà Francesco fino alla fine. Era la preoccupazione che i suoi fratres non corrispondessero a quanto il Vangelo domandava. Le esortazioni, le ripetute regole, gli ordinamenti, lo stesso papa, facevano pressioni su quel corpo minuto e fragile, che sentiva in cuor suo di aver perso la sua “battaglia personale”.
Oggi diremmo che Francesco di Assisi soffriva “d’instabilità bipolare”. Una fragilità storica quella appena descritta, che si discosta molto dal “santino” imposto poi dai suoi vari biografi ufficiali, che lo tirarono di qua o di là a seconda delle esigenze storiche contingenti. Un tentativo anche questo per “far morire la vera figura del Poverello assisano”.
Arriviamo così agli ultimi due anni di esistenza terrena: i più densi di significato e ricercata semplicità. La data è quella del 1224, mancano due anni alla sua morte, quando provato nello spirito (cioè le dispute all’interno dell’Ordine), Francesco con il suo solito piglio risoluto, esordisce davanti ai suoi frati, annunciando che: «Per voi oggi Francesco è morto. Non cercatemi più!». Un annuncio sconvolgente. Un divorzio dall’Ordine che aveva fatto nascere, che sortì come reazione umana da parte di tutti i frati, la sensazione che il fondatore fosse morto. Dovette essere un “lutto” collettivo di chi diventa orfano della guida e lui dei suoi discepoli. La comparazione con Cristo del Getsemani appare qui inevitabile con tutte le sfumature umane. La solitudine. L’abbandono. La sensazione dell’incipiente morte. Il timore, la paura, e la disperazione. Tutte impressioni che milleduecento anni dopo vediamo traslate su un altro monte, che non è più quello evangelico alle porte di Gerusalemme, ma è quel monte della Verna nell’Appenino toscano, che diventerà presto il Getsemani e Golgota francescano.
Il Francesco delle stimmate lo conosciamo tutti... Ma chi era quel Francesco giunto fin lassù in assoluta solitudine, accompagnato appena da frate Leone, provato nel corpo e ancor più nella mente, irriconoscibile da essere diventato misantropo, disperato per non sentirsi più corrisposto da quel Dio di san Damiano che gli ha parlato? Questo Francesco umano è a un passo dalla vera morte. È lui che cerca nella possibilità della morte quella scappatoia dalla morsa di questo mondo, che sentiva non corrispondergli più.
Lo dimostra un fatto, appena accennato per pudore d’intaccare la riconosciuta santità canonica, e rivestito poi dalle fonti con quel miracoloso che diventerà narrazione unica, ma per niente storica. Sulla rupe «intra Tevere e Arno» per dirla con Dante, ancora oggi sporgendosi dalla vertiginosa parete solcata da un periglioso passaggio tra le rocce, leggiamo una targa che parla di come qui la Madre Terra abbia accolto il corpo di Francesco, tentato dal male di lanciarsi nel vuoto. Una manifestazione vera o presunta che sia, che però incarna appieno lo spirito di inclusività terrena del «cum tucte le sue creature». Il figlio, Francesco con la madre, la Terra, che nel momento del massimo bisogno psicologico, torna a offrire il suo grembo come luogo di rifugio e pace. È qui che Francesco prova il totale abbandono del suo mondo. È tra quelle rocce – di cui quest’anno ricorrono gli 800 anni dai fatti (1224) – che il frate di Assisi riceve l’Ultimo sigillo (Dante), cioè le stigmate. Francesco muore psicologicamente, ma a seguito di quel misterioso segno, lui risorge ancora una volta.
Nessuno meglio del secondo film su Francesco di Liliana Cavani (1989), che ha come interprete Mickey Rourke, descrive questo passaggio fisico-spirituale del Poverello di Assisi. Arriviamo così alla fine, quella vista da tutti allora, quando dopo due travagliati anni di malattie varie, il corpo di Francesco segnato dalle segrete ferite, con un glaucoma ereditato dal viaggio in Egitto e un tumore allo stomaco (dati acclarati dagli esami forensi sul corpo), si avvicina all’incontro con «l’Altissimo Onnipotente bon Signore». In questo breve spazio temporale, in piena cecità, concluderà il Cantico delle Creature, il verso più complesso e sublimato del «Laudato si’ mì Signore per Sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ scappare…». È una resurrezione tutta francescana e del francescanesimo stesso. Con un Francesco che sfida e si avvicina alla morte – già santo – che però anche negli ultimi istanti di vita terrena (era il tramonto tra il 3 e 4 di ottobre 1226), riesce a farne un capolavoro.
Chissà quanto l’avrà pensata e invocata quella morte Francesco. Il «tutto è compiuto» del Golgota, ad Assisi si trasforma e lo trasforma in «sorridente letizia». Il Poverello infatti, guarderà le allodole, assaggerà i mostaccioli, si farà accarezzare da Jacopa dei Settesoli (nobildonna romana assurta al rango di “fra” per rompere l’austera clausura della Porziuncola), prima di spegnersi. L’ultimo respiro terreno di Francesco di Assisi, ieri come oggi, resta terrificante quanto immensamente dolce. Una sfida e un abbandono. Un ritorno e una dipartita. Ma soprattutto, il suo è un inno alla semplicità che ritorna alla Terra, da dove tutto è venuto. Non serve dunque essere credenti per comprendere o giustificare questo. Per celebrare l’ultimo giorno di Francesco in Terra, è sufficiente sentirsi uomini di buona volontà, per avvicinarsi al mistero ultimo della nostra morte corporale.
Antonio Gregolin
Nella foto: a sinistra il Crocifisso di san Damiano; a destra, un'opera di Antonio Gregolin su san Francesco (legno antico di Assisi con incastonati un frammento della tunica di san Francesco e santa Chiara)