Aspettando il Venerdì santo
Bastano una notte insonne e un francobollo di cielo per far capire — anche ad uno come me — cos'abbiamo dato troppo a lungo per scontato. Come la processione del Venerdì santo.
Dal mio letto, attraverso le due finestrelle dell’abbaino, si vedono le stelle. Non tante, giusto un paio di particolarmente luminose che riescono ad averla vinta sul riflesso giallognolo del lampione al sodio.
Potrei chiudere le tende ma, in una notte come questa, preferisco guardare di fuori, sentirmi libero quel tanto che basta per non dare di matto.
Forse ho mangiato pesante a cena o forse, semplicemente, non ho sonno e poter guardare il mio francobollo di cielo mi aiuta a distogliere la mente dai pensieri che l’affollano in queste settimane.
«Tra pochi i giorni — penso — sarà ora di preparare la Pasqua. Non ci sarà la Domenica delle palme con i suoi ramoscelli d’ulivo e pure il Triduo pare subirà notevoli variazioni».
Ho sempre avuto una predilezione per il Venerdì santo, la processione per le vie del paese e i lunghi recitati dal Vangelo. Da bambino, mio padre tornato da lavoro mi portava a seguirne i riti e ogni volta raccontava la stessa storia.
«Per anni — esordiva mio padre — c'era una signora che veniva alla Via Crucis e quando apparivano le genti armate di spade e bastoni, lei cercava di avvertire Gesù».
«Scappa, scappa!» diceva la vecchina, ormai immedesimata nella rappresentazione.
«Poi — continuava il racconto — quando ormai la folla armata l'aveva catturato, alla vecchia signora non rimaneva che constatare con un certo rammarico: “anca sto anno lo gà ciapà!”».
A mio padre è sempre piaciuto scherzare, inutile negarlo, ma ora a distanza di una ventina d'anni quel racconto ancora mi accompagna e mi strappa un sorriso pensando a come una storia così minuta mi abbia avvicinato all'attualitá di un Mistero così grande.
Sono sicuro mi sia venuto in mente anche qualche anno dopo, quando alla via crucis andai da solo e le strade erano strette fra cumuli di neve. Faceva freddo, nella via come in chiesa dove, ogni tre banchi, un fungo riscaldante di quelli che si trovano solitamente fuori dai bar del centro tentava di scongelare una moltitudine pie donne impellicciate e fedeli intirizziti.
Nell'aria densa, umida e impregnata del puzzo del gas combusto, tutto era così ovattato che nella penombra rosata credo d'essermi pure appisolato.
Alla fine della liturgia, sul sagrato la neve fresca s'era accumulata e infuriava ancora una discreta bufera. Il paese era sprofondato nel silenzio e soli si sentivano i passi incerti di noi reduci dalla funzione che rientravamo nelle nostre case, coi baveri dei cappotti alzati e qualche ombrello imbiancato. Un camminare affannoso il nostro, con le scarpe di cuoio che, sprofondando nella neve fresca, finivano per per rompere il sottile strato di ghiaccio sottostante e la condensa che bagnava le calze e l'orlo dei pantaloni.
Se mi metto d'impegno forse riesco a ricordarli tutti, i Venerdì santo della mia vita. Il primo con la patente e la macchina ad arrampicarsi sui monti nella speranza di non dover montare le catene e quelli di quand'ero bambino, a piedi, nel paese di provincia dove tutti si chiamano per nome ma nessuno si conosce davvero.
Chissà come sarà, quest'anno, il mio Venerdì santo. Ci penso in questa notte troppo lunga e ci pensavo guardando, nel pomeriggio, don Fabio che dall'alto del colle benedice col Santissimo i borghetti della Valle in diretta Facebook.
Chissà dove sarà ora, quella vecchina dei racconti di quand'ero bambino, che pensava di far evadere il Signore dal Giardino nella sera della via Crucis. Sarà mai riuscita quantomeno nel suo intento di ritardare l'arrivo della folla? E noi qui, sapremo finalmente imparare una lezione vecchia di duemila anni?
Ci penso guardando le mie due spanne di cielo che lentamente si colora. È quasi l'alba, ormai il lampione al sodio non illumina più la mia stanza, e posso dormire sereno qualche ora.