SanPa e il tema delle dipendenze. Sollini: “Comunità onnipotenti, non vedevano i cambiamenti sociali”
Il vicepresidente della Comunità di Capodarco parla di recupero e del concetto di aiuto, partendo dalla visione del documentario di Netflix. "Quel modello di intervento ha segnato in maniera profonda tutto il sistema di cura delle dipendenze in Italia. La comunità era vista come un luogo salvifico e mistico, quasi sacro, e solo lì ti potevi ‘salvare’. Un modello non inventato da Muccioli”
Nell’ultimo periodo è tornato fortemente d’attualità il tema delle dipendenze: a riaccendere il dibattito su metodi di accoglienza e recupero ha contribuito il successo della serie documentario di Netflix “SanPa, luci e tenebre di San Patrignano”, che ricostruisce la controversa storia della più grande comunità in Europa di recupero di persone con dipendenze e, in particolare, del suo fondatore Vincenzo Muccioli. Un docufilm che ha fornito spunti per diverse riflessioni sul tema, tra queste anche quella del vice presidente della Comunità di Capodarco, Riccardo Sollini, il quale in passato ha ricoperto il ruolo di coordinatore della Comunità terapeutica L’Arcobaleno di Fermo, struttura rivolta a persone con età compresa tra i 18 e i 30 anni nelle quali la dipendenza da sostanze stupefacenti non ha ancora determinato un grave deterioramento sociale e personale.
“Ho finito di vedere SanPa alle 2 e mezza di notte, ho iniziato tardi e non sono riuscito a staccarmi dal divano finché non è finito – ha affermato in apertura Sollini -. Mentre scorrevano i titoli di coda avevo un sentimento misto di rabbia e frustrazione. Tutti fatti noti che avevo letto e visto in altri canali, che mi hanno aperto a una serie di riflessioni. Non tanto sulla figura di Muccioli, il documentario ha già fatto da se”. Il vicepresidente della Comunità di Capodarco articola la sua riflessione sul mondo complesso delle dipendenze partendo da tre punti fermi: il concetto di aiuto, l’onnipotenza delle comunità, il rapporto dipendenze-uomo.
“L’aiuto dell’altro è un argomento ampio, complesso e di fatto una dimensione egoistica che, se portata all’estremizzazione, comporta una perdita di vista del ruolo di chi, stando a lato, deve accompagnare la persona nella ricerca del benessere”, è la personale riflessione di Sollini. Secondo il vicepresidente della Comunità di Capodarco, la linea di confine è il “sostituirsi all’altro definendo quello che è giusto o sbagliato, sostituirsi alla coscienza definendo le scelte e le possibilità, tutte dimensioni che hanno come denominatore le volontà e l’imposizione di chi aiuta e mai di chi è aiutato”.
“È una dimensione egoistica perché il concetto dell’aiuto è in primo luogo un benessere proprio dell’operatore: chi fa questo lavoro con passione e professionalità lo fa perché gli piace e non lo si può fare se non si ha al centro se stessi e il proprio benessere. Nel lavorare in comunità mi sono sempre posto come esperto del settore che poteva svolgere il suo ruolo, incrociando la mia professionalità con quella di altri: i colleghi ma soprattutto i ragazzi accolti, esperti della loro vita. Non c’è da chiedersi quale sia il limite del fare del bene, perché nel momento in cui decidi di fare volontariato, lavorare con l’altro, il confine è già tracciato dal rispetto dell’umanità di chi hai davanti”.
“L’onnipotenza delle Comunità”
SanPa riporta alla memoria il contesto storico-politico degli anni in cui sono nate molte delle comunità per dipendenze in Italia, rivelandone talvolta in maniera cruda tutte le complessità. “Un momento - ha affermato Sollini - in cui ci si trovava sprovvisti di possibilità e strumenti per affrontare un problema - quello delle sostanze - che spaventava e che vedeva molte persone morire. Attenzione però, perché quel modello di intervento ha segnato in maniera profonda tutto il sistema di cura delle dipendenze in Italia, in una logica di autodafè dei fondatori e dei primi pionieri che estendevano a verità assoluta quello che era il loro punto di vista, derivato da esperienze o da altri retaggi culturali”.
“Il mondo delle comunità – ha proseguito Sollini – per tanti anni è stato un mondo fatto di persone erette a santi, che credevano di avere il potere di decidere per la vita di chi era considerato incapace di intendere e di volere, totalmente assuefatti dalle sostanze. La comunità vista come un luogo salvifico e mistico, quasi luogo sacro, e solo lì ti potevi ‘salvare’. Questo concetto era, e in realtà in alcune situazioni lo è ancora, talmente radicato nell’opinione pubblica che molti degli operatori ci credevano veramente, così come gli ospiti”.
“Questa spinta ha portato spesso alla costruzione di luoghi chiusi – ha spiegato Sollini - in cui anche senza violenza si viveva una vita alternativa, in cui la verità era chiusa nelle mura e nei recinti del luogo sacro della comunità. Questo elemento non lo ha inventato Muccioli, è un modello che si è sviluppato già nelle prime comunità terapeutiche di cui si ha memoria: un mondo talmente autocentrato che non si accorgeva dei cambiamenti della società, delle dipendenze e delle persone che arrivavano in Comunità, talmente concentrati sul mantenere la propria dimensione identitaria e non più a rispondere ai bisogni di chi cercava aiuto”.
Un concetto che il vicepresidente della Comunità di Capodarco declina partendo dalla propria esperienza in prima linea nell’accoglienza e recupero di persone con dipendenze: “Ho girato tante comunità, avuto la fortuna di incontrare tanti fondatori e tanti operatori ‘storici’. Il linguaggio usato, l’idea del ‘tossico’ come ladro, come marginalizzato, come scarto è diffuso e spesso funge da cornice che crea recinti identitari in cui la persona con dipendenze si adegua. Anzi, più i sensi di colpa sono alti e più ci si identifica con uno stile che fa da specchio a come la società ti vede. Negli anni le comunità sono state discarica della ‘feccia umana’ che la società non voleva vedere in giro: fate quello che volete purché non li vediamo, come se nascondere l’emarginazione significasse togliere la droga dalla società. Le comunità si sono prestate a questo, anzi in alcune situazioni, pur essendo accreditate e convenzionate con il Sistema sanitario nazionale, si è preferita l’accoglienza di persone con grave difficoltà sociale piuttosto che chi necessitava un intervento terapeutico e sanitario, perché l’obiettivo era quello di produrre e non di fare psicoterapia. Non esiste chi è incapace di intendere e volere, esiste chi può essere aiutato a potenziare gli occhiali con i quali guardare il mondo e se stessi, occhiali che possono essere cambiati finché l’individuo non trova quelli che maggiormente gli si addicono. Solo la persona può scegliere quali. Sono un professionista, non sono qualcuno che può erigersi a giudice di vita. La Comunità diventa uno strumento, uno spazio all’interno di altri necessari, in cui essa ha una funzione perché amplifica la possibilità di lettura delle situazioni di vita quotidiana, propone punti di vista. Non è un luogo salvifico, né risolutivo; la persona non smette mai di essere nella società”.
Uomo e dipendenze
Infine Riccardo Sollini ha parlato del legame stretto che si crea tra la persona e le proprie dipendenze, intese in un’accezione più ampia del termine, ma anche dei muri che termini sbagliati e abusati a suo avviso possono creare nella società. Secondo Sollini, l’affidamento e la fiducia che i ragazzi hanno nella figura dell’operatore sono talmente alti che sarebbe sbagliato provare a erigersi a “giudice superiore”. “Se chiedi a un ragazzo in comunità che sostanza usa, la risposta è: ‘dipende da quello che cercavo e da quello che mi serviva’. È evidente come il mondo dell’uso di sostanze sia differenziato e cambiato, così come è chiaro che chi arriva in comunità lo fa sempre più spesso perché si rompe l’equilibrio di funzionalità sociale che ognuno si è dato, e anche qui per ognuno è differente. Basta guardare le statistiche sull’uso di sostanze e sulla produzione: coloro che le usano sono molti di più rispetto a chi ha problemi di dipendenza patologica. Questo è un dato di fatto. Non credo nel tossicodipendente. Questa parola ha già per sé un significato che comprende la personificazione, ha in sé il marchio del reietto, della non persona, di quello che puoi fargli tutto perché tanto se lo merita. È la parola utilizzata per tracciare una linea tra la persona sana, “normale”, e chi è sottoposto. L’operatore e l’ospite”.
“Penso che tutti noi siamo per definizione esposti alla dipendenza da qualcosa o da qualcuno, la domanda è: ‘Quanto questa mia dipendenza mi permette di realizzarmi, mi permette di vivere affetti, di sognare e progettare?’. Laddove questo non succede più, forse il mio equilibrio si è spezzato e devo provare a trasformarmi e cambiare occhiali per vedere. Le riflessioni sono tante e lunghe, permangono una serie di concetti. L’uomo è fatto di libero arbitrio, obiettivo di tutti è scoprire il proprio benessere e nessuno può obbligarci a scegliere quello pensato per noi”.