“Non viviamo in una parentesi della storia”. Non si metta la scuola fra parentesi. L'intervento degli esperti dell'educazione dell'Unipd
Il DPCM del 3.12.2020 indica un organo, il tavolo di coordinamento istituito presso le Prefetture, che si assuma la responsabilità “del più idoneo raccordo tra gli orari di inizio e termine delle attività didattiche e gli orari dei servizi di trasporto pubblico”, ovvero di costruire alcune basilari condizioni a garanzia del diritto all’istruzione dei ragazzi che frequentano le scuole superiori.
Si è data notizia dell’avvio del lavoro dei tavoli di coordinamento provinciale, si è annunciato il fabbisogno relativo all’incremento dei trasporti e il 28.12.2020 un provvedimento nazionale ha annunciato la riapertura al 50%. Ma in Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Marche e altre Regioni, la ripresa delle lezioni in presenza è stata rimandata all’1 febbraio. Cosa che pare violare i diritti 3 e 34 della Costituzione come affermato da Cesare Mirabelli, Presidente emerito della consulta, in un’intervista sul Sole 24Ore del 10.01.2021.
Il recente studio di Enrico Bucci della Temple University di Philadelphia e di Antonella Viola dell’Università di Padova (https://www.pattoperlascienza.it/2020/10/24/covid-le-scuole-non-moltiplicano-le-infezioni/) ha confermato che la seconda ondata di contagi non dipende dall’apertura delle scuole. Bucci sottolinea che “a fronte di 4-5 pubblicazioni che evidenziano un nesso causa-effetto tra scuola e focolai, ce ne sono decine che dimostrano l’esatto contrario” oltre al fatto che da quando le scuole superiori sono state chiuse il 26.10.2020, la curva dei contagi, ad esempio in Veneto, ha continuato ad aumentare. Dati confermati dal Rapporto dell’Istituto superiore di sanità del 30.12.2020, che, a p. 21, conclude: “Allo stato attuale delle conoscenze le scuole sembrano essere ambienti relativamente sicuri, purché si continui ad adottare una serie di precauzioni ormai consolidate quali indossare la mascherina, lavarsi le mani, ventilare le aule, e si ritiene che il loro ruolo nell’accelerare la trasmissione del coronavirus in Europa sia limitato. L’esperienza di altri Paesi, inoltre, mostra che il mantenimento di un’istruzione scolastica in presenza dipende dal successo delle misure preventive adottate nella comunità più ampia. Quando sono in atto e ampiamente seguite misure di mitigazione sia a scuola che a livello di comunità, le riaperture scolastiche pur contribuendo ad aumentare l’incidenza di COVID-19, causano incrementi contenuti che non provocano una crescita epidemica diffusa.
La revisione della letteratura suggerisce che date le previsioni secondo cui le misure di distanziamento sociale potrebbero dover essere adottate ancora per molti mesi, c’è un urgente bisogno da parte di tutti i Paesi di identificare le modalità più idonee per riportare in sicurezza gli studenti alla didattica in presenza” https://www.iss.it/documents/20126/0/Rapporto+ISS+COVID-19+n.+63_2020.pdf/7b3d3626-3982-f7a1-86ef-1ede83e170a4 t=1609758939391.
Sappiamo che, come è naturale che sia, gli studi scientifici non sono univoci nelle conclusioni. Ma tre punti almeno risultano evidenti.
Il primo: la situazione è complessa e richiede soluzioni complesse. Sono necessari volontà politica, capacità amministrative e gestionali, impegno intersettoriale per riportare gli studenti in presenza nelle scuole superiori. Istituti Comprensivi e scuole secondarie hanno lavorato sodo per costruire le condizioni per una didattica in presenza “sicura”. Essendo però mancata un’efficace e innovativa organizzazione dei trasporti, degli orari e dei tracciamenti, oltre che della stessa didattica, questo non è stato sufficiente.
Il secondo: le scuole superiori in Veneto e in molte altre Regioni sono state “chiuse” intorno al 20 febbraio 2020 e mai più riaperte fino alla ripresa del nuovo anno scolastico, a fronte di molti altri esercizi, come ad esempio i bar, che hanno visto lunghi periodi di apertura. Per i ragazzi delle superiori, se le lezioni in presenza riprenderanno l’uno febbraio, significa poco più di un mese di presenza in quasi 12 mesi: un tempo davvero inaudito in un’età della vita cruciale per costruire la propria identità nel necessario dialogo con le realtà esterne alla famiglia. L’impegno di moltissimi insegnanti nella didattica a distanza (o, più propriamente, didattica dell’emergenza) ha fatto la differenza, garantendo la possibilità per gran parte degli studenti di continuare a studiare e a sviluppare competenze e abilità.
Il tempo è però ora diventato troppo lungo per metodologie pensate per supportare l’insegnamento in presenza e non sostituirlo: apprendere non è trasmettere delle conoscenze, ma anche costruire contesti relazionali in cui sperimentarsi attraverso il confronto.
La fatica e i limiti si fanno sentire per tutti i ragazzi, ma soprattutto per coloro la cui famiglia fatica a trovare le risorse per essere un contesto educativo e protettivo. Ai genitori si chiede di essere al contempo madri, padri, amici, insegnanti e compagni di giochi e attività sportiva, nel tentativo di dare risposta ai diritti dei bambini e dei ragazzi all’educazione, al tempo libero, al gioco, all’apprendimento, allo sport. Ma i genitori non educano da soli, e soprattutto non educano se lasciati soli. Sono molteplici gli allarmi delle associazioni di pediatri che denunciano i rischi connessi a questo isolamento prolungato: scorrette abitudini alimentari, assenza di attività motoria, ripiegamento su se stessi, abuso di tecnologie, deprivazione educativa, ecc.
In un articolo di ACP-Associazione Culturale Pediatri (Lettere M&B n.5/20) si legge: “Per tutti, tranne quei pochi che possono vantare una buona dotazione tecnologica in casa e genitori in grado di accompagnarli nelle lezioni e nei compiti, si sta accumulando un ritardo educativo, che per la maggioranza (secondo i dati prodotti dalle indagini di Save the Children e di Sant’Egidio, almeno 6 su 10) è molto rilevante [e non può essere nascosto dietro i pur doverosi sforzi di didattica a distanza].
Altri studi autorevoli impressionano per le evidenze che portano sugli effetti delle chiusure scolastiche sulla crescita dei ragazzi. Ne citiamo solo un altro, che riporta dati ineludibili sull’aumento dell’anoressia nervosa, ma avremmo potuto scegliere fra molti: https://adc.bmj.com/content/early/2020/07/24/archdischild-2020-319868?fbclid=IwAR2qt1ix1lwN0mSSjBc4aaHQSq0uSEX-MKHTtaaZMYje-3ik6o3xL0bu20k
Tra l’altro, si moltiplicano le segnalazioni da parte di genitori e insegnanti sul fatto che, anche in quella minoranza di ragazzi che ha avuto accesso alle tecnologie e al supporto domestico, si rendono sempre più evidenti “cali di attenzione e indisponibilità alle attività finalizzate all’apprendimento”.
Senza scuole e senza attività sportive si è creato un fenomeno di deprivazione culturale ed educativa istituzionalizzato, che, come messo in luce anche dal rapporto di IPSOS-Save the Children (https://s3.savethechildren.it/public/files/uploads/pubblicazioni/riscriviamo-il-futuro-rapporto-6-
mesi_0.pdf), può avere effetti di lungo periodo sull’apprendimento e, più in generale, sulla dispersione scolastica, colpendo in misura maggiore le fasce di popolazione più svantaggiate e aumentando la forbice tra chi ce la farà e chi probabilmente finirà tra i “dispersi dell’educazione”.
Il secondo punto riguarda, dunque, il difficile equilibrio da trovare fra la necessità di proteggere gli adolescenti, così come tutto il vasto mondo adulto che ruota intorno alla scuola, dal contagio, e la necessità di proteggere gli stessi adolescenti dagli effetti sullo sviluppo prodotti dalle limitazioni dei contatti sociali necessarie a contenere il contagio.
Il terzo punto riguarda la condizione in cui l’Italia è entrata nella pandemia: nel nostro Paese il tasso medio di abbandono scolastico fra i 18 e i 24 anni è del 13,5 % nel 2019, ben al di sopra della media UE del 10,2 % (dato ISTAT) soprattutto considerando che in alcune Regioni arriva al 35%, e una percentuale del 24% di giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni non studia e non lavora (i cosiddetti Neet), rispetto a una media del 13% dei paesi dell’area OCSE, con una popolazione che è fra le più vecchie al mondo.
Il Rapporto PISA 2020 dell’OCSE mette in rilievo che, nel parametro Istruzione universitaria, l’Italia è ultima (19.6%), battuta solo dal Messico (18.3%). Il primato nel parametro spesa per l’educazione ($ spesi per studente universitario e per l’educazione nella prima infanzia) spetta al Lussemburgo con 48.907$, mentre l’Italia si colloca al 26esimo con 11.257$, molte posizioni dopo Spagna, Francia, Germania, Regno Unito, ecc. Osservando il coefficiente di Gini che misura i livelli di uguaglianza e disuguaglianza, l’Italia sprofonda al 26eiesimo posto fra i 40 paesi presi in esame.
La letteratura scientifica converge nel dimostrare che ogni dollaro speso in educazione, in particolare nei primi anni di vita, consente di recuperare 7 dollari di PIL. La correlazione tra disinvestimento in educazione e stagnazione economica è ampiamente riconosciuta (si veda il recente P. Bianchi, Nello specchio della scuola, Il Mulino, 2020). Purtroppo l’Italia è uno dei pochi Paesi che non ha avviato indagini nazionali sulle perdite degli apprendimenti durante la pandemia, come invece hanno fatto Paesi quali Olanda, Francia, USA, che, dati alla mano, sono in grado oggi di dimostrare i danni sull’apprendimento che la didattica a distanza ha creato. Nonostante questo, il Rapporto sul Mercato del lavoro e la contrattazione 2020 del CNEL afferma che “lo scarso investimento pubblico sulle nuove generazioni (in particolare la parte che va efficacemente a rafforzare la loro formazione e l’inserimento solido nel mondo del lavoro) è il principale nodo che vincola al ribasso le possibilità di crescita italiane, da sciogliere prima ancora che sul piano del rapporto tra giovani e lavoro, su quello più alto del ruolo delle nuove generazioni nel modello di sviluppo del Paese. Se non si inverte questa tendenza non solo si pregiudicano le prospettive economiche del Paese, ma si rischia di alterare in profondità il patto fra le generazioni che è un elemento costitutivo dell’assetto sociale, della sua equità e stabilità”.
Il terzo punto è dunque che l’Italia non è un paese che può permettersi questo disinvestimento: i Paesi che hanno realizzato negli ultimi anni forti investimenti sulla scuola, in questo frangente di emergenza, hanno chiuso tutto per non chiudere le scuole e nessuno di essi ha tenuto a casa gli studenti delle superiori per quasi un anno, come sta invece accadendo in Italia. Quei Paesi, inoltre, stanno pensando di chiedere ai più anziani lo sforzo di stare in casa per poter vaccinare, dopo il personale sanitario, il personale scolastico e il personale dei servizi essenziali.
Se l’Italia è entrata così debole nell’emergenza sanitaria, il problema non è la pandemia e non ha senso pensare di tornare a come la scuola era prima, occorre piuttosto saper utilizzare l’emergenza sanitaria come occasione per ripensare la scuola dalla A alla Z: ripensare la didattica, aprire la scuola al territorio, collocare finalmente la didattica disciplinare in una prospettiva autenticamente educativa, ecc.
Ma la pandemia sta causando dei danni aggiuntivi che rischiano di travolgerci. Continua il Rapporto CNEL: “La necessità di chiudere le scuole nel corso del 2020 ha costretto a garantire l’istruzione con strumenti nuovi, coerenti con la didattica a distanza (...) ma ne ha ridotto complessivamente la qualità e ha esposto ad una forte crescita del rischio di dispersione scolastica. Con la conseguenza di inasprire non solo le diseguaglianze generazionali ma anche quelle sociali”.
La Politica non può limitarsi a constatare le difficoltà rispetto al ritorno in aula e a rimandarlo in attesa che la curva dei contagi cali. La curva dei contagi non sta calando e la situazione si incupisce ogni giorno a causa delle diverse varianti del virus, della diversità delle misure e dei diversi livelli di tenuta dei sistemi sanitari regionali. Per non far perdere anche questo intero anno scolastico agli adolescenti occorre una strategia forte e urgente, condivisa tra ministeri, regioni e enti locali, in grado di strutturare le condizioni per implementare procedure efficaci perché queste oggettive difficoltà possano essere superate.
“É difficile, i casi aumentano, non si può riaprire”, si è detto e così è stato fatto.
“Siccome è difficile, occorre un’assunzione aggiuntiva di impegno e responsabilità per costruire le condizioni organizzative necessarie alla riapertura”, dobbiamo rispondere.
Non si dica che non si riapre per i troppi casi. Non si riapre perché sono mancate, nonostante i fondi messi a disposizione, volontà politica e impegno intersettoriale. Rifacendoci allo spirito delle parole del Presidente della Repubblica del 31.12.2020: “Non siamo in balìa degli eventi. Ora dobbiamo preparare il futuro. Non viviamo in una parentesi della storia. Questo è tempo di costruttori. I prossimi mesi rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e per porre le basi di una stagione nuova”.
La Politica dovrebbe rendere conto di cosa si farà da oggi per rendere possibili le riaperture l’uno febbraio. Come Università pubblica condividiamo la responsabilità nella costruzione di quel bene comune che è l’educazione e siamo pronti a mettere a disposizione conoscenze e competenze per affrontare le sfide di questo tempo. Un tempo grave, che chiede, lo riconosciamo, di assumersi la responsabilità di decisioni complesse senza avere sotto controllo tutte le variabili che possono influire sulla bontà di queste stesse decisioni. Ma il tempo è questo e ogni ulteriore ritardo avrà conseguenze pesanti sulla crescita dei più giovani e il futuro di noi tutti: “Non sono ammesse distrazioni”.
Non si metta la scuola fra parentesi.
Paola Milani, Sara Serbati, Anna Salvò, Katia Bolelli, Daniela Moreno Boudon, Armando Bello
Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare, Università di Padova