Il noi al centro. Non l’io. «Nessuno si salva da solo», ricorda papa Francesco
La parola «Nessuno si salva da solo», ricorda papa Francesco. Lo vediamo nella pandemia, lo impariamo anche sul lavoro. Pensare agli altri non porta risultati immediati, ma semina letizia sul proprio cammino
Passare dalla cultura dell’io al noi non è facile. Nella civiltà della competizione siamo programmati per l’ “io” e per opportunità individuali, sempre stimolati a cercare soddisfazione, visibilità… Sono rari – per quanto forse emergenti tra i giovanissimi – i momenti collettivi in cui i nostri talenti vengono accompagnati a cercare vocazioni lavorative a servizio dell’altro e in organizzazioni dove le persone siano il centro.
Passare dall’io al noi richiede un salto, non basta la buona volontà del singolo. Siamo dentro un ingranaggio forte, potente: è necessario esserne consapevoli. Nella Laudato si’ papa Francesco ha raccontato il sistema tecnofinanziario, che è una macchina che non consente eccezioni: l’algoritmo spinge verso il profitto, verso indici in cui l’umanità cerca solo di espandere il proprio potere economico, perdendo l’umanità stessa. In questo falò delle vanità, conta emergere, il successo è misura del valore umano, si compete e si scarta chi non appare produttivo, c’è paura di essere giudicati per l’insuccesso professionale. Tra lavoratrici e lavoratori spesso non esiste la solidarietà, ognuno pensa al proprio, le relazioni sono improntate alla logica della guardia e del ladro. Nelle dinamiche commerciali si vede competizione esasperata, la furbizia come dogma.
Peraltro, mi sembra un approccio che non funzioni. Certo, è faticoso rendere le persone un fine e non un mezzo. Ma credo che sia dannoso, anche economicamente.
Questo sistema malato da mesi si intreccia alla malattia del Covid-19. In primavera avevamo paura del virus. Oggi, forse, abbiamo più paura della povertà. Eppure mai come oggi vediamo come serva il “noi” per uscirne. Perché il “noi” è “affidarsi”: all’altro che mi aiuta, magari rispettando le regole anti-contagio; all’altro che comprende l’urgenza di una solidarietà in economia. Non so, davvero, se “andrà tutto bene”. Ma vivo un tempo in cui riusciamo a parlarci di più, anche al lavoro, per quanto l’impegno sia crescente. Si ragiona di temi autentici. Si prova a condividere visioni. E si cercano modelli, parole che ispirino. Che vadano a generare il “noi”
Durante l’Avvento su Youtube ho seguito quel biblista eccezionale che è don Fabio Rosini. Commentava un inno del quarto secolo, il Tota pulchra, che al quarto verso dice: «Tu (Maria), letizia di Israele». Letizia è una parola che deriva dal letame, e il letame produce fecondità. La vera letizia è fecondità, non è riempire la mia vita, ma produrne altra. La nostra letizia deriva dal lasciarci fecondare, per diventare padri e madri, dall’occuparsi non della propria vita, ma di quella degli altri.
Certo, a nessuno risulta facile perché non porta a risultati veloci, ci si espone alla fragilità del dipendere dall’altro e dal legare il proprio destino all’altro. Ma trasforma gli appagamenti provvisori su cui facciamo tante volte affidamento per “tirare a campare” in vera letizia.
Questa letizia esiste e vive in tante storie, anche se non è il modello dominante. Eppure credo che questa letizia apparentemente fragile tenga in piedi il mondo. Penso all’educatore che fa diventare la sua famiglia le persone con disabilità con cui e per cui lavora; al medico che si dedica a ritmi stremanti per i suoi pazienti; l’operaio che cerca di creare con colleghi di reparto una squadra cooperativa; l’impiegato che fa il suo dovere con scrupolo; il lavoratore e volontario di una non profit che donano pezzi di vita; il parroco che ogni sera incontra una famiglia o chiama per un compleanno; l’impresa che pensa a ogni dipendente come il capitale più importante da preservare e valorizzare, che vuole essere attore di cambiamento del territorio, che si impegna per i clienti, per l’ambiente, per la società.
Papa Francesco, il mese scorso, ha invitato duemila giovani di tutto il mondo a ragionare di economia. Avremmo dovuto incontrarci di persona ad Assisi. Nel suo messaggio finale ha lanciato un monito per un mondo più inclusivo, un mondo del noi: «Con l’esclusione resta colpita l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. È la cultura dello scarto, che non solamente scarta, bensì obbliga a vivere nel proprio scarto, resi invisibili al di là del muro dell’indifferenza e del comfort».
Che fare? «Nessuno si salva da solo». E quindi bisogna costruire una cultura economica e uno stile di vita che metta il “noi” al centro. Non un io, non un noi piccolo in cui ci sono comunque gli altri. Serve un noi grande.
Stefano Turcato
Partecipante a The economy of Francesco
Laureato in economia e commercio a Padova, Stefano Turcato ha conseguito a Trento il master in “Gestione delle imprese sociali”. Da dieci anni lavora in un consorzio di imprese sociali; segue Riesco, cooperativa che inserisce nel lavoro, attraverso la ristorazione, persone con disabilità. È uno dei partecipanti di The economy of Francesco.