Coronavirus. Don Casarosa (cappellano Pisa): “L’amore e la preghiera sono più forti”
Il responsabile della cappellania di un ospedale toscano si racconta al Sir: “Accolgo i malati nella mia vita cercando di alleviarne solitudine e disperazione e aiutandoli a dare un senso alla loro sofferenza”. La paura c’è ma “bisogna saper rischiare. Gesù come si sarebbe comportato?”
“La mia giornata inizia alle sei con la preghiera e la meditazione. Alle 8:30 celebro la messa e poi iniziano le mie visite ai malati di Covid fino all’ora di pranzo. Nel pomeriggio riprendo a visitare i malati fino alle 19:30. Dopo cena faccio un secondo momento di preghiera personale e concludo la mia giornata con un ultimo giro nelle terapie intensive”. Don Luca Casarosa è il responsabile della cappellania del Nuovo Ospedale Santa Chiara di Pisa Cisanello e in questi mesi è destinato al padiglione dei pazienti con coronavirus: “una vita – racconta con emozione al Sir – dedicata ai malati perché in loro ho scoperto il volto di Cristo”.
Don Luca, come avvicina i malati di Covid? Che cosa chiedono, di che cosa hanno bisogno?
Mi avvicino in punta di piedi. Condivido con loro la vita; li ascolto e li accolgo nella mia vita. Cerco di eliminare la distanza e di alleviare la profonda solitudine che si portano dentro, la disperazione. Si sentono soli e hanno bisogno di cose materiali e spirituali. Chiedono della loro famiglia e cercano conforto, preghiera e una benedizione. Io considero i malati di Covid i miei signori e padroni, come diceva San Vincenzo de’ Paoli. Io sono solo un servo inutile.
Li avvicino con profondo rispetto e amore.
Come si sente interpellato da tanta fragilità e sofferenza? Non le capita mai di sentirsi ferito, impotente, scoraggiato?
Nel 1994 mi ammalai e i miei superiori mi misero in ospedale. Così mi trovai malato tra i malati, ferito, e devo dire che l’ospedale è stato per me un’occasione di grazia, di conversione e di apertura a Dio. Ho scoperto Gesù nel volto del malato. Nella vita bisogna passare per questa solitudine per capirla; bisogna viverla. Anche Gesù nel calvario è stato abbandonato e ha sperimentato la solitudine e il disprezzo di tutti.
Condividendo la sofferenza altrui, cerco di far uscire le persone dal proprio guscio, dal pensare solo al proprio dolore per aprirle ad un orizzonte più vasto, al rapporto con Dio. Li porto a dare un senso a quello che stanno vivendo e chiedo al Signore di donare loro la guarigione ma anche la fede. Anche la malattia può essere vissuta come offerta per l’apertura del cuore. Il cappellano deve essere un poeta di Dio, mi deve raccontare la bontà di Dio nella mia vita.
Quando penso al cappellano d’ospedale, mi viene in mente l’immagine del Cireneo. E’ così?
Sì, il cappellano è il Cireneo che aiuta a portare la croce, ma è anche la Veronica che asciuga il volto stanco, sudato e sanguinante di Gesù. Cireneo e Veronica. Quanti volti ho asciugato! Volti che porto ogni giorno nella preghiera e nella messa.
Diversi cappellani si sono ammalati, molti sono guariti ma qualcuno purtroppo è morto. Lei non ha paura?
Certamente ho paura. Mi tremano le gambe perché il rischio del contagio è fortissimo, ma prendo tutte le precauzioni possibili andando dai malati vestito con la tuta bianca sulla quale mi hanno messo una croce rossa e la scritta “don Luca”. Sono ben protetto e ringrazio Dio che l’azienda ospedaliera mi abbia messo a disposizione questi dispositivi, però nella vita bisogna anche saper rischiare. Di fronte a un’emergenza non ci si può far vincere dalla paura e tirarsi indietro. Io mi sono lanciato per il bene dell’uomo e l’ho fatto soprattutto per Gesù ponendomi la domanda: Lui come si sarebbe comportato?
Devo guardare i malati con lo stesso sguardo di Gesù.
Che rapporto ha con il personale medico e infermieristico?
Un ottimo rapporto, di grande amicizia, affetto e collaborazione. Ho sempre ricevuto sostegno. Abbiamo fatto dei momenti di preghiera insieme anche in collegamento telefonico con l’arcivescovo. Diversi incontri durante i quali mons. Benotto ci ha offerto una riflessione spirituale e ci ha dato la sua benedizione dopo avere parlato con i primari, i direttori di dipartimento, i responsabili dell’ospedale.
Il virus è contagioso ma l’amore e la preghiera sono più forti e la benedizione di Dio vince sempre.
Come avete vissuto la Pasqua?
La domenica di Pasqua ho celebrato due messe: una nella chiesa di San Luca dove mi trovo ora, in collegamento video con medici, infermieri e pazienti; un’altra nel giardino della foresteria dove vivono temporaneamente medici e infermieri che in queste settimane hanno lasciato la propria casa per dedicarsi completamente ai malati Covid e non contagiare i familiari. Per Pasqua abbiamo celebrato la messa in giardino rispettando distanze e precauzioni, ed è stata un’esperienza molto profonda di preghiera e comunione. La messa è l’eccellenza della preghiera, il cuore della vita cristiana. In questa cappella celebro tutti i giorni, sempre in videocollegamento.
Don Luca, con quale speranza guarda al futuro?
Guardando al futuro voglio essere un uomo di speranza. Il cristiano è un uomo di speranza e di luce: nella sua vita non ci può essere pessimismo. Noi tutti dobbiamo portare speranza dove non c’è, e amore dove manca. Perché l’amore è creativo e fa miracoli, soprattutto nei piccoli gesti e attenzioni verso le persone. Io spero che l’uomo si ravveda.
Questo virus, che ha distrutto le vite di tanta gente, ha segnato il cuore di tutti noi. Le persone guarite hanno certamente imparato qualcosa, ma per tutti noi deve essere occasione per rivedere la nostra vita. Per riscoprire l’umanità che c’è in noi, riaprirsi a Dio e avere con Lui un rapporto di profondo amore e fiducia.