L’emigrazione italiana, di ieri e di oggi, è poco conosciuta
Ricordare, oggi, sembra un cantare fuori dal coro. Ma se servisse a porre le premesse per il futuro?
L’attuale generazione corre veloce. Immersa in un mondo in cui niente dura e nulla è sicuro.
La scelta è momentanea, non troppo coinvolgente, garante della propria libertà. Ricordare sembra un cantare fuori del coro. Ma se servisse, anche, a guardare avanti e a porre le premesse di futuro? «Mio padre era un Arameo errante» o il memoriale della Pasqua dovrebbero suggerire ai credenti che la vita è un pellegrinaggio, un viaggio, un itinerario… che non comincia e non si esaurisce con i singoli e con i contemporanei.
È una strada da riconoscere, da valorizzare e da arricchire.
L’ideale religioso dovrebbe anticipare i tempi, porre segni concreti di cieli nuovi e terra nuova; accogliere con fraternità chi è diverso per pelle, per lingua e per fede, consapevoli che tutti siamo fratelli e figli dello stesso Padre. Nella pratica, però, sono i fatti che frenano, provocano e modificano la riflessione e l’azione.
Siamo ancor oggi colpiti da una constatazione del beato Scalabrini che, parlando degli italiani emigrati, scriveva più di un secolo fa: «Lassù negli Stati Uniti del Nord le perdite del cattolicesimo si contano a milioni, certo più numerose delle conversioni degli infedeli fatte dalle nostre missioni in tre secoli e, nonostante le apparenze, continuano ancora». I connazionali avevano varcato il confine e tentato la sorte nel mondo intero per mancanza di alternative e per necessità di lavoro. Erano partiti con una scarsa preparazione, hanno affrontato altri spazi, altri ritmi, altre culture, altri comportamenti…
Ad esempio, per “vincere la battaglia del carbone”, principale fonte di energia di un paese messo alle corde dalla guerra, giunsero in Belgio tra il 1946 ed il 1957 più di 140 mila lavoratori italiani, 17 mila donne e 29 mila bambini. I futuri minatori firmavano un contratto che li impegnava a non cambiare lavoro e a restare al fondo della miniera per cinque anni. Ad accoglierli c’erano delle baracche e vecchie abitazioni. Gli italiani hanno impiegato del tempo ad adattarsi alle nuove situazioni, socialmente, culturalmente e anche religiosamente. Nell’arco di pochi giorni avevano sperimentato la scomparsa del paese, la rivoluzione industriale, il tempo cadenzato diversamente, la secolarizzazione, l’ateismo pratico o l’indifferenza religiosa. Avevano incontrato l’individualismo, dovuto fare i conti con confessioni, sette, religioni e morali diverse. Tutti si sentivano provvisori e in transito. E al “torneremo in Italia” è seguito il “ci torneremo... per le vacanze”!
Il tempo è passato in fretta e le generazioni si sono succedute a ondate: alla prima degli emigrati è seguita la seconda generazione degli italiani nel mondo e la generazione più inserita degli italiani del mondo.
Nella prima, seconda o terza fase dell’emigrazione molti italiani hanno avuto bisogno di riconciliarsi con la propria storia segnata dalla maledizione e dall’abbandono, eppure l’unica storia data loro di vivere. E dal momento che il lavoro non è tutto, hanno avuto bisogno di riconciliarsi con un Dio non più sostenuto dai modelli culturali di partenza, con una fede esposta al dialogo e alla contraddizione.
La fede, e le sue espressioni, richiedevano sempre di essere sostenute, purificate, fortificate, completate senza rischi di appiattimento o di standardizzazione. E hanno dovuto riapprendere a fare chiesa valorizzando il protagonismo che li anima, ritrovandosi in piccole comunità, non tanto rifugio ma campo base, in una chiesa pluriforme ma che fatica a essere plurale. La chiesa italiana è stata presente tra i migranti italiani dove poteva, tra incomprensioni e tensioni, per aprire alla speranza.
Anche una trentina di sacerdoti diocesani di Padova e alcune centinaia di religiosi e suore sono stati loro accanto dappertutto in Europa, in America del Nord e del Sud e in Australia.
Il mondo dell’emigrazione italiana, di ieri e di oggi, resta poco conosciuto perché non ha parola o non trova vero ascolto, perché è visto come realtà del passato o lontano dallo sguardo e dal cuore.
Eppure potrebbe offrire “chiavi di lettura” per il movimento attuale e aprire a una pastorale “plurale” nella complessità. Eppure potrebbe aiutare a rispettare il tempo fisiologico della maturazione, delle tappe da non bruciare o violentare. La vita è più complessa di una carta d’identità; il linguaggio è molto di più di una lingua; il grande viaggio, anche dopo molti chilometri di strada e tanti anni vissuti, è davanti a noi. La storia ci insegna a essere attenti, pazienti e creativi con chi parte e chi arriva.
È una storia che si sta ripetendo in Italia!