Lettere dall'Ecuador: cos'è una parrocchia e cosa deve fare un prete?
18 mila abitanti a prete. È questa la realtà ecuadoregna dove don Mauro Da Rin Fioretto, fidei donum della diocesi di Padova, ha vissuto e lavorato negli ultimi dieci anni. Un dato che fa riflettere, pastoralmente parlando, quando parliamo qui di penuria di preti dove il rapporto è comunque drasticamente più basso: 2 mila, 2.500 abitanti a sacerdote.
Negli ultimi dieci anni mi è capitato di conoscere e accompagnare qui in Ecuador diverse parrocchie e comunità: direttamente Maria Estrella de la Evangelizaciòn (barrio Luz y Vida: sui 20 mila abitanti) e san Lucas Evangelista (settore di Carcelèn Bajo: sui 20-25 mila abitanti) in Quito (oltre che Carcelèn - 25-30 mila, Carapungo - 40-50 mila abitanti), Nuestra Senora de los Angeles (sui 20 mila abitanti), Nuestra Senora del Perpetuo Socorro (barrio del Arbolito: 10-12 mila abitanti), San Francisco (sugli 8 mila abitanti) nella città di Duràn.
Dagli anni ’80 noi padovani lavoriamo in piccole comunità di preti e laici in parrocchie di periferia urbana. La più piccola è la mia con circa 8 mila abitanti. Un primo dato che mi spinge a riflettere è quello oggettivo numerico. La diocesi di San Jacinto ha 6 anni e circa 900 mila abitanti (poco meno di quella di Padova), con 45 parrocchie e una cinquantina di preti (tra diocesani e religiosi). Significa un rapporto di 18 mila abitanti per prete. Padova, di contro, ha circa un milione di abitanti e un 4-500 preti diocesani attivi (se non sbaglio… cioè un rapporto di 2.000-2.500 abitanti per prete…).
Già a questo punto qualcuno starà reagendo emotivamente o mettendosi sulla difensiva, anche pensando erroneamente che in America Latina c’è meno da fare che a Padova: ritmi più lenti, meno incontri e riunioni, meno pressioni “storiche”, più messe e devozioni e meno formazione… In parte è vero, anche se sarebbero necessarie un paio di serate, salami e bottiglie di vino sul desco, per approfondire come meriterebbe il tema… perché anche qui oltre alle attività “specificamente pastorali” ci sono “rogne” burocratiche che ti impegnano, e costruzione di aule o progetti sociali e riunioni con le suore…
Però io vorrei riflettere e lanciare una provocazione sui temi comuni e di fondo: cos’è una parrocchia e chi deve fare le cose? Tra Padova e San Jacinto c’è indubbiamente una differenza di modello e presenza pastorale, ma alla fin fine cos’è e chi è una parrocchia? Chi frequente la messa domenicale? Chi appartiene a un gruppo apostolico o formativo? I membri del consiglio pastorale? O anche chi a messa ci va ogni tanto o solo ai funerali e a battezzare i figlioletti? È proprio vero che ci sono differenti livelli di appartenenza e protagonismo… però per qualsiasi cosa (dalla politica ai profughi in Italia, dalla mancanza di acqua potabile allo spaccio di droga in Ecuador) si intervista il parroco. La comunità può avere nel suo pastore il portavoce o il capofila o leader trascinatore, ma spesso … non c’è comunità. Il parroco spinge, tira, stimola, a volte stressa i fedeli, ma nelle nostre parrocchie latinoamericane il vincolo è molto debole. La gente “partecipa ma non si sente parte”… non so in 10 anni se le cose siano cambiate a Padova.
Qui nelle periferie chi frequenta è l’8-10 per cento. Vuol dire che in parrocchia alla domenica vengono a messa sulle 800 persone (chiaramente quando c’è catechismo, in vacanza sono circa la metà!). Ma io 800 persone non le conosco per nome! Ci conosciamo decentemente con un centinaio… a noi preti ci chiamano “padre”: però sinceramente mi sento padre e fratello (al punto da prestare al bisogno soldi miei, e da ricordare spesso nella preghiera con gratitudine e preoccupazione) di una decina. Una domenica a messa (vangelo di due o tre riuniti nel mio nome) ho detto: «Invece della predica lunga normale vi faccio una predichetta veloce veloce. Il resto del tempo muovetevi dal banco e andate a conoscere una persona. Presentatevi e chiacchierate cinque minuti». Qualcuno si è mosso, molti no. Imbarazzati, abituati a un fatto religioso che si consuma individualmente o, al massimo, come famiglia.
Forse le parrocchie hanno un cuore più forte costituito dalle persone che si conoscono e vanno d’accordo con il parroco e tra di loro e questo lo chiamiamo “parrocchia”. Ma al cuore a volte mancano le gambe, le mani e il cervello dell’intera comunità credente che è un po’ scollegata... Credo che avremo da lavorare molto contro l’individualismo del nostro tempo e che la comunità (quella vera di chi riesce a conoscersi, stimarsi e avere un cuor solo e un’anima sola, a pregare gli uni per gli altri e non solo per i propri parenti!) sarà l’unico annuncio possibile e credibile dell’esistenza e presenza reale di Dio nel mondo. Forse più che in patronati (per i giovani o il tempo libero degli anziani) e restauri delle chiese dovremmo investire in cappuccini e brioche, in tempi per chiacchierare e condividere le nostre vite… e poi per decidere insieme su cosa lavorare insieme… Il numero di fedeli sarà allora relativo, e aumenterà lo spessore e significatività delle relazioni personali.
Chissà che non riusciamo davvero a passare sempre più da feligreses-fedeli a hermanos-fratelli.
don Mauro Da Rin Fioretto