Giovani e lavoro, nell’era della polarizzazione dei lavori e dei saperi
Viviamo in una stagione di forte “polarizzazione” dell’economia, del lavoro e dei saperi, che propone sfide inedite in particolar modo ai giovani. È la fotografia del Veneto industriale e del suo mercato del lavoro che propone Daniele Marini, professore di Sociologia dei processi economici all’università di Padova e tra i più noti studiosi del “motore” del Nordest.
La disoccupazione giovanile è “il” problema. Se non si concorda un “new deal” basato su un patto generazionale tra giovani e vecchi, tra risorse per chi esce dal lavoro e risorse per chi entra, il collante del nostro sistema sociale viene meno.
«Il rapporto tra le generazioni è un fattore sempre più critico per due ordini di motivi. L’invecchiamento della popolazione rende necessaria una discussione vera – come avviene in tutta Europa - sul cosiddetto “invecchiamento attivo”. Su come rimanere in modo adeguato nel lavoro anche in età avanzata. A questo si aggiunge un calo demografico progressivo, con una specificità: le giovani generazioni sono mediamente più istruite, ma in certe aree del Paese i laureati faticano di più a entrare nel mercato rispetto a chi ha meno titoli di studio».
Il Veneto sta ripartendo grazie ai numeri da record dell’export: i giovani “partecipano” alla ripresa?
«I nostri dati sulla disoccupazione giovanile rimangono elevati, con tassi meno elevati rispetto ad altre regioni, circa la metà. Va ricordato che 10-15 anni fa il Veneto aveva un tasso di disoccupazione di circa il 2-3%, di fatto la piena occupazione. Le medie raccontano però situazioni diverse: imprese che assumono e assumeranno, società che fanno utili con l’export e che hanno giocato in pieno la sfida dell’innovazione. E poi “galleggiano” le piccole imprese, sotto i 10 dipendenti, la maggioranza, che lavorano solo con l’Italia».
Non si vede a breve la “luce verde” per l’occupazione giovanile?
«Chi assume cerca di comprimere al massimo il costo del lavoro: stage, apprendistato, tempo determinato. Gli imprenditori fanno fronte a una incertezza economica ancora ben presente nel mercato. E dentro all’incertezza c’è l’“effetto polarizzazione”: come detto, chi compete e scambia all’interno di filiere internazionali e chi “tira la cinghia” dentro al mercato interno».
L’attuale struttura del mercato del lavoro assorbe con fatica manodopera poco specializzata. È così anche per le figure professionali?
«La quarta rivoluzione industriale, che in Italia stiamo sfidando con il piano “Industria 4.0”, si caratterizza per l’ingresso portentoso delle nuove tecnologie nell’economia. Pensiamo all’effetto degli strumenti digitali nel turismo: con Booking il sistema delle agenzie di viaggio è andato al collasso. Airbnb avrà un effetto non meno dirompente sull’attività degli hotel. Tecnologie che hanno un tasso di velocità di diffusione che mette in enorme difficoltà i settori economici via via coinvolti. Mutazioni straordinarie che cambiano radicalmente e velocemente il mercato del lavoro».
La digitalizzazione nei servizi e la robotizzazione nell’industria spaventano perché colpiscono le fasce sociali meno attrezzate per il cambiamento?
«Il caldaista che lavoro fa? Manuale o intellettuale? In pratica usa solo macchine elettroniche oggi. Stiamo ridefinendo i profili professionali a tutti i livelli. In poco tempo usciranno professioni e si creeranno nuovi lavori. Quando arriverà l’auto che si guida da sola, che fine faranno i tassisti? E sembra fantascienza ma tra qualche anno anche le pizze le inforneranno i robot».
Preoccupa il fenomeno dei cosiddetti “Neet”: giovani che non studiano, non lavorano e rimangono esclusi dai circuiti canonici del lavoro. In Veneto qual è la situazione?
«Al di là delle statistiche è difficile valutare la dimensione intenzionale di chi rimane fuori dal mercato. In Veneto non sono disponibili ricerche specifiche, ma guardando i dati generali è un fenomeno meno diffuso rispetto al resto del Paese. La polarizzazione del mercato del lavoro si può mitigare solo con politiche attive di inclusione dei giovani. Se la ripresa si consolida, e sarà duratura, è un fenomeno destinato a riassorbirsi».
Sull’altro versante ci sono i giovani “iper-formati”, con dottorati, che invece scelgono di andare all’estero. Esiste qualche ricerca regionale su questa emigrazione giovanile?
«Si tratta di un fenomeno trasversale geograficamente. Interessa le giovani generazioni che hanno aspettative di un certo tipo, non solo di stipendio. Ricercatori universitari, fisici, chimici, ingegneri, medici, architetti. Professionalità che hanno maggiori opportunità nelle università straniere o nelle multinazionali. La grande chimica, l’industria farmaceutica, i grandi studi di progettazione, chi si occupa di risorse umane: realtà che in Italia non hanno strutture diffuse e in grado di garantire percorsi di crescita professionale».
Si può imputare una quota di responsabilità alle famiglie, se una parte consistente di giovani si avvia a percorsi di studio poco “spendibili” sul mercato?
«Esiste una difficoltà delle famiglie a comprendere le trasformazioni. Spesso si indirizzano i figli in base alle proprie aspettative e guardando alle categorie dei lavori “prestigiosi” del passato. Una colpa che in parte va anche alle imprese: il sistema non ha saputo “raccontare” le trasformazioni delle aziende. L’equazione classica, fabbrica/ operaio, lavoro manuale/“lavoro sporco”, è superata da tempo. Oggi la manodopera specializzata nelle fabbriche svolge mansioni spesso molto evolute».
Questo è un passaggio cruciale per “orientare” ragazzi e studenti.
«È la rappresentazione sociale dei lavori che fa la differenza. Un caso fa scuola: un’azienda elettronica cercava apprendisti da inserire, ma nessun giovane si presentava con questo tipo di ricerca classica. Si sono inventati una sorta di “The Apprentice” al posto della parola apprendista e i curricula sono arrivati. Saper “narrare” i lavori, le mansioni è fondamentale. Pensiamo alla professione del cuoco: 10 anni fa che appeal riscuoteva tra i giovani? Grazie a Masterchef e alle trasmissioni culinarie le scuole alberghiere oggi hanno una marea di iscritti».