Mons. Bertin, vescovo nella Somalia che muore di sete
Dallo scoppio della guerra civile, della chiesa cattolica è rimasta solo la Caritas. A fianco delle organizzazioni di Usa e Irlanda si studia un aiuto concreto ai 5 milioni che soffrono la fame. Mons. Giorgio Bertin, frate minore padovano di Valsanzibio, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, è in prima linea contro la siccità e la carestia nel Corno d’Africa. Secondo l’Unicef, a causa della siccità e della carestia, sono 1,4 milioni i bambini in pericolo di vita tra Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen.
Sono almeno 110 le persone morte di fame in sole quarantotto ore nella regione sud occidentale del Bay, in Somalia. A dare l’annuncio, domenica scorsa, il primo ministro somalo Hassan Ali Haire. Si tratta del primo bilancio ufficiale delle vittime della siccità in corso nel Corno d’Africa, provocata in parte dal fenomeno climatico El Niño.
La grave carestia.
È una crisi tremenda quella che attanaglia la Somalia e gli altri paesi dell’area. Secondo le Nazioni unite, sarebbero 5 milioni i somali che hanno immediato bisogno di cibo. L’Unicef calcola che il rischio di carestia, legata anche ai conflitti in atto, in Nigeria, Somalia, Sud Sudan e Yemen metta in pericolo la vita di 1,4 milioni di bambini. In una sola giornata, come racconta il Washington post, oltre 7 mila sfollati hanno cercato aiuto in un centro alimentare di Mogadiscio, che però non è in grado di rispondere a una domanda così alta.
L’azione della Caritas.
Costantemente accanto alla popolazione, mons. Giorgio Bertin, frate minore di Valsanzibio, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio, risponde al cellulare direttamente da Hargeisa, nel Somaliland, stato a nord della Somalia, indipendente dal 1991.
«In questo momento, attraverso Caritas Somalia – l’unico segno rimasto della presenza concreta della chiesa cattolica – stiamo stringendo alleanza con Catholic relief services (la Caritas Usa) e Trocaire, l’omologa irlandese – spiega il vescovo padovano – L’obiettivo è mettere a punto una strategia e provare a limitare i danni della carestia che sembra ormai inevitabile».
Oltre alla scarsità di cibo, l’emergenza idrica sta causando anche epidemie di colera e di morbillo.
«La situazione è particolarmente severa in alcune aree del paese, in particolare nel Puntland, lo stato autonomo del nord-est somalo», sottolinea mons. Bertin.
Il problema sicurezza.
Impossibile invece un calcolo preciso delle conseguenze nel Sud del paese, a causa della situazione di grande instabilità e insicurezza dovuta alla presenza di Al-Shabaab, il braccio somalo di Al-Qaeda, responsabile della strage all’università kenyota di Garissa di due anni fa che costò la vita a 150 persone.
«Il vero problema della Somalia è proprio questo – certifica il vescovo – In questi anni, in moltissimi si sono rifugiati nei campi per sfollati in Kenya, Etiopia e Yemen». Da qualche settimana però c’è un nuovo presidente della repubblica, Mohammed Abdullahi Mohammed detto Farmajo. «L’ho incontrato brevemente quando ricopriva la carica di primo ministro – commenta il pastore – Fonti sicure mi parlano di una persona seria, meno legata alle ideologie che attanagliano la Somalia. Sta componendo il governo con il favore della popolazione e della comunità internazionale e contro gli Shabaab, che hanno intensificato gli attentati. Ma in questi anni ho visto molti cambi al potere senza che la situazione cambiasse veramente. Stiamo a vedere».
L’azione di governo di Mohammed può essere determinante per ristabilire un margine di sicurezza nella parte meridionale del paese, e permettere la riapertura di una sede della chiesa cattolica nella capitale Mogadiscio, dove manca dal 1991. In città imperversa il racket degli estremisti islamici, uno dei maggiori canali di finanziamento oltre alla pirateria nel golfo di Aden, il pizzo sul traffico di bestiame e l’export di carbonella.
La chiesa in Somalia.
«A differenza di Gibuti, dove la chiesa è riconosciuta e ogni giorno accogliamo 2.700 alunni nelle nostre richiestissime dodici scuole cattoliche, in Somalia questo è il tempo della semina e della speranza. Dobbiamo lavorare per far rinascere dalle ceneri il cristianesimo, sapendo che i risultati arriveranno in tempi lunghi». Accanto a mons. Bertin oggi ci sono cinque sacerdoti provenienti da Nuova Zelanda, Brasile, Stati Uniti, India e Camerun oltre a cinque congregazioni di suore per un totale di 27 religiose. Proprio ad Hardeisa, lo scorso anno è stata riaperta la chiesa dedicata a sant’Antonio di Padova, un presidio di fede attorno al quale una decina di cristiani in loco per ragioni professionali si ritrovano oggi. Accanto a questo ci sono i numerosi contatti con le ong locali, come International relief foundation e Life line Somalia, attraverso le quali Caritas Somalia moltiplica gli aiuti.
L’appello ai padovani.
La motivazione ad andare avanti e continuare a progettare il futuro per mons. Bertin ha un solo nome: fede. Il suo diventa un vero e proprio appello ai padovani: «La fede è un dono che aiuta ogni giorno a superare lo sconforto e le difficoltà. Un dono da non perdere e da amare assieme alle proprie radici».
Il profilo
Mons. Giorgio Bertin è nato a Valsanzibio nel 1946 e appartiene all’ordine dei frati minori. È stato ordinato sacerdote nel 1975. Nominato vescovo di Gibuti esattamente 16 anni fa, è stato consacrato il 25 maggio del 2001. In Somalia dal 1978 si è dedicato anzitutto all’educazione. Nel 1989 diventa amministratore apostolico a Mogadiscio. Allo scoppio della guerra civile nel 1991, si è rifugiato in Kenya da dove ha continuato a seguire le attività della Caritas.