Il vescovo Claudio in dialogo con Noi Padova: tre domande, e tre risposte per il futuro
Tre domande del presidente di Noi Padova Fabio Brocca. Altrettante risposte del vescovo Claudio, che così, partendo dalla sua esperienza nella chiesa mantovana, al termine dell’assemblea autunnale dei circoli Noi, ha avuto modo di offrire la sua visione sul ruolo che i patronati saranno chiamati a ricoprire nei prossimi anni.
Tre domande del presidente di Noi Padova Fabio Brocca. Altrettante risposte del vescovo Claudio, che così, partendo dalla sua esperienza nella chiesa mantovana, al termine dell’assemblea autunnale dei circoli Noi, ha avuto modo di offrire la sua visione sul ruolo che i patronati saranno chiamati a ricoprire nei prossimi anni.
Può raccontarci la sua esperienza di oratorio a Mantova?
«La mia parrocchia, vicina alla città, era un territorio di sinistra – ha raccontato il vescovo – i rapporti con il comune non erano facili, perché si è passati da una grande identificazione tra la parrocchia e il comune a una separazione netta. Per noi lavorare voleva dire lavorare da soli, anzi: se noi facevamo l’oratorio loro costruivano il centro di aggregazione giovanile».
Nella parrocchia di Sant’Antonio di Padova, a Mantova, dove il vescovo Claudio è stato parroco per 17 anni, un patronato – o meglio oratorio, come lo chiamano da quelle parti – non c’era. «Il sabato c’erano gli incontri per i ragazzi. Facevamo in tre turni e usavamo pure la canonica perché lo spazio non c’era».
Ma l’assenza o la presenza di mezzi non è stato il punto focale del ragionamento del vescovo: «Il problema non sono gli strumenti giuridici, le strutture o le proposte, ma chi sono e cosa pensano le persone che si assumono servizi e responsabilità. Per questo, nella mia parrocchia, l'obiettivo che avevo era costruire una comunità di cristiani, e tutto quello che girava attorno alla parrocchia doveva essere funzionale alla costruzione di questa comunità».
Il vescovo ha parlato della sua sagra: «La facevamo anche da noi, ma raramente ci abbiamo guadagnato qualcosa: organizzavamo la sagra per aprire le porte a persone che di solito non partecipavano alla vita parrocchiale».
La prospettiva di un calo numerico dei preti e la sfida dei prossimi 20 anni per la chiesa di Padova pone delle riflessioni
«È un momento difficile, ma bello, di trasformazione. In futuro, i vostri figli avranno un’educazione cristiana non se ci sono i preti, ma se ci siete voi, se ci sono le comunità; magari piccole, ma comunque comunità, capaci di dare testimonianza. Per questo, i corsi per fidanzati, lo sport, il catechismo, la sagra non valgono nulla da soli. Sono in grado di educare una comunità vera? Allora va bene tutto». Ma Padova è diversa da Mantova: «Se abbiamo ancora le risorse, le strutture e le buone tradizioni, possiamo metterci in movimento giocando d’anticipo».
Cosa può offrire l’associazione Noi per la vita dei centri parrocchiali?
Nella visione del vescovo Claudio, il Noi è chiamato a essere utile facendosi piccolo. «Certo, c’è bisogno di trasparenza, di legalità, di correttezza dal punto di vista fiscale, ma è fondamentale che anche i circoli Noi si pongano a servizio della vita della comunità. Non è l’associazione, dunque, che deve crescere, ma la comunità».
Il vescovo parla del Noi come di un’importante associazione “strumentale”: «Deve mantenersi dentro una certa “piccolezza”, sviluppando la convinzione interiore di essere a servizio della comunità e non una sua “concorrente”. Se ci collochiamo in quest’ottica, per cui essere associati favorisce il nostro servizio, la vita comunitaria e il raggiungimento degli obiettivi va bene, ma bisogna verificare continuamente il tipo di comunione che unisce il consiglio pastorale al circolo Noi».
Come l’oratorio può diventare una buona opportunità per i giovani?
Nell’anno dell’indizione da parte del vescovo Claudio di un sinodo per i giovani, sono loro, anche per il Noi, l’obiettivo principale. Rispondendo a questa domanda, il vescovo ritorna alla sua esperienza:
«Per il catechismo dei bambini, chiedevo ai genitori se erano d’accordo di farlo direttamente nelle case, in gruppetti di 5 o 6 bambini, con due catechiste. Lo facevamo perché il catechismo non ricordasse il modello scolastico, con una classe, i banchi, la maestra, ma un momento familiare. Chiedevo però che ci fosse anche una presenza in parrocchia, perché i ragazzi si affezionano anche ai muri, a uno spazio che la comunità degli adulti mette loro a disposizione».
Ma i muri non bastano: «I ragazzi non si affezionano solo ai muri, ma anche agli adulti. Nella mia parrocchia c’era un volontario di nome Giancarlo, che faceva ogni sorta di lavoro per la comunità. Più di un ragazzo mi diceva che, da grande, voleva essere come lui. I ragazzi devono vedere che ci sono anche gli adulti: questo diventa educativo. Contro l’individualismo di oggi, che ci invita ad andare per conto nostro, ad arrangiarci, lo spazio comunitario dove la comunità si trova è uno spazio profetico».
E nelle trasformazioni che attendono la chiesa padovana c’è tantissimo spazio per questa profezia: «Prima si riceveva un’educazione cristiana in casa. In parrocchia si andava per prendere solo ciò di cui c’era bisogno. Oggi, invece, le famiglie sono in difficoltà, e abbiamo bisogno che le famiglie si aiutino tra loro: questo è lo spazio per i patronati».