«Cambiamo, con coraggio». Intervista esclusiva al vescovo Claudio
A colloquio col vescovo Claudio: il Sinodo dei giovani arrivato alla sua terza fase, la riflessione che si è aperta sulle comunità parrocchiali, il ruolo dei cristiani nella società e nella trasmissione della fede. Sullo sfondo, la visita pastorale che inizierà subito dopo l’estate.
Vescovo Claudio, erano anni che il Capitolo dei canonici della Cattedrale non veniva alimentato con nuove nomine. Cosa le ha rese opportune?
«Il Capitolo dei canonici della Cattedrale è un’istituzione così antica e così significativa per la storia della chiesa e della città di Padova, e anche attualmente così piena di competenze, che non indicare nuovi componenti avrebbe significato poco alla volta lasciare che si svuotasse, col rischio di ritrovarci in una nebbia dentro la quale un po’ per volta si scompare. Ma sarebbe stata una scelta pericolosa, sia per l’importanza del patrimonio – pensiamo solo alla biblioteca capitolare – sia perché saremmo stati irrispettosi della storia. Certo oggi il Capitolo è stato sostituito da altri organismi per quel che riguarda la collaborazione con il vescovo, a partire dal consiglio presbiterale e dal collegio dei consultori, ma dare un segnale di continuità era doveroso, valorizzando in particolare il suo ruolo di vicinanza al vescovo e alla chiesa diocesana soprattutto attraverso la preghiera e la presenza nei momenti più solenni della liturgia».
Alcune figure, a partire dall’arciprete della Cattedrale e dal direttore della biblioteca capitolare, fanno parte di diritto del Capitolo. Altre sono frutto di una tua scelta. Secondo quali criteri?
«Dico subito che non vorrei fossero percepite come onorificenze fini a se stesse ma come un modo per esplicitare e riconoscere quanto alcune persone stanno condividendo con il vescovo la fatica del governo della chiesa diocesana. In questo senso ho legato i canonicati a dei ruoli ben precisi: penso al responsabile dei diaconi, della vita consacrata, al rettore del seminario che è responsabile per conto del vescovo della formazione dei nuovi presbiteri, al vicario generale, al vicario giudiziale».
Vale lo stesso criterio anche per i cappellani di Sua Santità?
«Più che il ruolo accanto al vescovo, in questo caso il senso della scelta si comprende bene guardando al profilo delle persone. Vorrei dire che, più che un premio personale, rappresenta per me un modo per indicare con chiarezza quanto la chiesa di Padova crede in alcuni ambiti pastorali d’impegno: è quello missionario di tanti preti fidei donum che si sono spesi lì; è il servizio al mondo dei nomadi; è l’impegno a tessere dialoghi, relazioni nell’ambito della cultura. È l’abnegazione quotidiana di tanti parroci anziani, nel cui ministero ci riconosciamo come comunità diocesana intera».
Ambiti, sensibilità pastorali che innervano la nostra chiesa oggi. In questi mesi hai insistito molto su tre aspetti: giovani, poveri, comunità. Si è aperto un anno in cui si tireranno le somme di tanti percorsi e si evidenzieranno anche i nodi scoperti. Partiamo dalla comunità e dal documento che assieme ai vicari episcopali hai proposto come base di discussione alla diocesi...
«La grande discussione di questi anni, e certamente non solo a Padova, riguarda l’esperienza da cui proveniamo, ovvero la parrocchia come punto di riferimento fondamentale e con una sua configurazione molto legata alla figura del parroco. Col ridursi del numero di preti abbiamo due strade di fronte: possiamo unificare più parrocchie o possiamo provare a ripensare la vita della parrocchia, anche se non ci sarà più un parroco residente. La strada che stiamo intraprendendo è questa seconda, ed è una strada avventurosa perché non sappiamo dove ci porterà. Per questo ho promosso una riflessione in cui vorrei coinvolgere tutti coloro che nelle nostre parrocchie si stanno occupando di vita pastorale.
È un processo importante, di coinvolgimento e corresponsabilizzazione quello che abbiamo aperto, con una speranza: che alla fine di un tempo di riflessione, se un giorno riuscirò a dare delle indicazioni pastorali, possano essere il frutto di un cammino comunitario e non soltanto di una mia personale e individuale convinzione».
C’è un aspetto cruciale da cui partire per riflettere sul futuro delle nostre comunità?
«Io ne vedo uno, ineludibile: la comunità stessa deve convincersi che è lei il soggetto della propria vita pastorale. Che vuol dire avere ben chiaro che la comunità esiste anche a prescindere dalla presenza di un parroco residente, perché la missione della chiesa è affidata ai cristiani, da sempre. Forse noi preti in passato abbiamo finito per mettere in secondo ordine la titolarità della vita cristiana affidata a ogni battezzato. Oggi invece dobbiamo aprire una grande riflessione sulle ministerialità dei battezzati.
Perché se è vero che solo un ministro ordinato può presiedere l’eucarestia, non possiamo per questo dimenticare quanto il battesimo conferisce già a ciascun cristiano in termini di dignità e ministerialità».
Al di là dei sacramenti, se in una comunità mancano le forze per dar vita all’Azione cattolica, a una scuola dell’infanzia, a un centro parrocchiale, ad altre forme di aggregazione... cosa fare? Già oggi non c’è tutto ovunque, in futuro sarà sempre più difficile...
«Ma è proprio qui che emerge in modo chiaro la responsabilità della famiglia. Dobbiamo dirlo senza equivoci: è la famiglia che è chiamata a far crescere nella fede il proprio figlio, a essere testimone della fede e catechista. Se poi ci sono altre famiglie ci si può aiutare, ma nessuno può delegare ad altri il compito di educazione alla fede. A prescindere dalle sue forze, non vedo la parrocchia come erogatrice di servizi, neanche di carattere spirituale, ma come contesto di vita in cui famiglie, adulti, giovani, anziani insieme custodiscono il vangelo. Finora invece abbiamo lavorato con un atteggiamento diverso: quante volte noi adulti ci siamo in un certo modo tirati indietro perché c’erano i “competenti”, il parroco e qualche collaboratore che lo aiutava? Quante volte abbiamo finito per delegare tutto l’impegno educativo, formativo, di testimonianza, di preghiera al parroco? Ecco, questo modello nel futuro non potrà più funzionare. Siamo chiamati a pensare a un nuovo modello di chiesa, e se devo indicare un orizzonte penso che sia più simile a quello delle prime comunità cristiane che non a quelle del secolo scorso».
All’assemblea diocesana hai annunciato la tua prima visita pastorale. Con che spirito la intraprendi e la stai progettando?
«La visita pastorale fa parte degli impegni di un vescovo, ma è uno di quegli impegni che affronto più che volentieri. Con un’idea chiara: desidero incontrare non le istituzioni cattoliche ma le comunità cristiane. Non per controllare, ma per sostenerle, per incoraggiarle, per capire meglio cosa posso fare, io vescovo, per aiutarle a essere davvero comunità di cristiani dove, come dicevo prima, i cristiani stessi si fanno responsabili della loro testimonianza. Proprio per questo vorrei fosse una visita vissuta nella semplicità e nell’autenticità delle relazioni, tra un vescovo, i suoi preti e i cristiani. Senza mettere in piedi chissà quali celebrazioni ma dandomi la possibilità di inserirmi realmente nella vita delle comunità».
Cosa ti sta più a cuore?
«Vorrei innanzitutto comprendere a fondo la loro vita spirituale, capire se davvero sono capaci di pregare, di celebrare o se si va ancora ad assistere alla celebrazione.
Faccio un esempio: abbiamo ovunque nelle nostre parrocchie dei cori molto bravi... e abbiamo ovunque il rischio di dividerci tra persone specializzate per il canto e un’assemblea che resta in silenzio, sentendosi quasi esonerata dal partecipare. Io invece penso a celebrazioni in cui ci sia certamente spazio per i nostri cori, così come per il prete, ma in cui a celebrare sia la comunità stessa».
La visita pastorale sarà un’occasione preziosa anche per riflettere sul tema delle ministerialità laicali, in questo contesto di cambiamento.
«Non c’è dubbio. Vorrei vedere quali sono le ministerialità che si esprimono in una comunità, come sono organizzate, quanto sono capaci di autonomia e anche di fantasia perché oggi sentiamo il bisogno di ministeri nuovi perché una comunità possa vivere e sentirsi pienamente soggetto. E poi vorrei vedere come si sta facendo spazio ai giovani, perché se una comunità di cristiani sa far spazio loro, se sa educare alla fede, solo allora è una comunità viva».
A proposito dei giovani. Senza mettere il carro davanti ai buoi, c’è qualcosa che ti ha già colpito del cammino fin qui percorso dal sinodo?
«Sono già molto soddisfatto di quanto abbiamo vissuto finora e voglio dire un grazie enorme a quanti hanno lavorato a questa esperienza bella e di grande fede. Il sinodo ci ha regalato la riflessione di circa 5 mila giovani della diocesi: ci fermassimo anche qui, avremmo già di che essere contenti. In realtà si è aperta una nuova fase, in cui i 150 giovani dell’assemblea sinodale sono chiamati a riflettere sulle indicazioni date dai loro compagni».
E gli adulti?
«Noi adulti non interveniamo, aspettiamo che ci raccontino quello che loro pensano. È un modo per rispettarli, per manifestare fiducia in loro e anche nello Spirito Santo. Dunque aspettiamo la Pentecoste! Ma già adesso possiamo dire due cose: la prima è che il mondo giovanile si aspetta di essere valorizzato e noi chiesa di Padova i giovani li stiamo ascoltando seriamente. La seconda è che spero che il Sinodo dei giovani abbia la capacità di sollecitare le comunità degli adulti. Perché il problema non sono i giovani, siamo noi adulti. Siamo in una fase in cui siamo chiamati a rimetterci in cammino, a non dare per scontato quel che è sempre stato. Il mondo è cambiato, le nostre società sono cambiate, e bisogna che noi apriamo un tempo di rifondazione, di creatività della nostra chiesa. È un tempo bello quello che ci è dato di vivere, se avremo il coraggio di raccogliere fino in fondo la sfida che ci lancia».
Guglielmo Frezza