Giovanni Battista Vero. Un canonico del Seicento, bibliotecario della Capitolare
Intermediario di “destre e affettuose maniere”. Giovanni Battista Vero, di Breganze, fu segretario dei cardinali Barberini, poi, a Padova, diresse la biblioteca capitolare.
Nome meno noto di altri, ma benemerito della chiesa padovana, è quello del canonico e bibliotecario Giovanni Battista Vero, nato il 1° gennaio del 1600 e scomparso a 84 anni. Egli fu nominato canonico penitenziere dal 1658, quando già la sua carriera ecclesiastica aveva subito varie peripezie.
Nato da una povera famiglia di Breganze (allora sotto la diocesi di Padova), mostrando da fanciullo molta vivacità e talento fu istruito prima dall’arciprete della sua parrocchia e poi in seminario a Padova per interessamento del vescovo Marco Corner, divenendo sacerdote.
Nel 1625 andò a Roma a servizio dei cardinali Francesco e Antonio Barberini come segretario.
Qui avvenne un fatto curioso: accusato di aver scritto alcune poesie satiriche dirette contro personaggi altolocati (di cui non si ha traccia), fu dal Barberini allontanato da Roma e se ne tornò a Padova, per essere riammesso a Roma solo nel 1639. Nel 1648 fu impiegato in un affare diplomatico molto importante, compiuto con successo: una missione a Malta per sollecitare il gran maestro dell’Ordine affinché impegnasse le sue galee nella missione di Levante.
Tornato nuovamente a Padova, intrattenne relazioni epistolari con cardinali e prelati romani e con i vescovi dello stato veneto, procurando l’aggregazione della famiglia Barberini al patriziato veneto. Compose le vite dei quattro protettori della diocesi e dei santi Massimo, Fidenzio e Bellino, e anche l’ufficio proprio e gli inni di questi santi.
Nominato bibliotecario capitolare «migliorò la fabbrica della libreria – scrive Francesco Scipione Dondi – dispose i codici in miglior ordine e lasciò morendo picciola dote annuale per la pulitura della medesima».
Scrisse varie opere di poesia e di storia sacra e profana, tra cui due canzoni dedicate a Luca Stella, vescovo di Vicenza, e sonetti e ottave sparse nelle raccolte poetiche seicentesche.
La sua opera più famosa fu un’Epitome della storia della Repubblica veneta scritta in elegante latino, che cominciava nel 530 e si concludeva nel 1669.
Ebbe parte importante nell’acquisizione da parte del vescovo Gregorio Barbarigo del complesso di Santa Maria in Vanzo, dove sarebbe sorto il nuovo seminario. Risiedendo abitualmente a Venezia, tra l’agosto del 1667 e il maggio del 1669 informò il presule del decreto di soppressione della congregazione suggerendone l’acquisto. Il Barbarigo lo invitò a Padova per le feste di Natale consegnandogli una lettera personale al nunzio Trotti per perorarne la cessione. Questi si dichiarò disponibile a favorire l’accordo, a patto che giungessero da Roma le debite autorizzazioni alla vendita delle fabbriche e degli orti annessi alle chiese soppresse.
Anche in questa fase delle trattative il ruolo del Vero appare determinante perché “con le sue destre et affettuose maniere” riuscì a “inchinare a seconda dei suoi desideri” il nunzio e i senatori veneziani. Il 21 marzo 1669 il pubblico commendator Bartolomeo Ninfa metteva all’incanto i beni delle congregazioni disciolte aggiudicando a Giovanni Chiericato, rappresentante del Barbarigo, il monastero di Santa Maria in Vanzo «con tutti li chiostri, cortili, stanze e luochi d’ogni sorte, con l’horto ed altre sue habentie e pertinentie» per la somma di 3500 ducati, molto inferiori di quegli ottodiecimila ducati che si temeva fossero chiesti.