Liturgia, questione di grazia

La liturgia, su cui giungono sollecitazioni dal Sinodo, deve riscoprirsi servizio divino. Da essa sgorga l’amore del Padre

Liturgia, questione di grazia

«Dalla crisi odierna – diceva Joseph Ratzinger, nel 1969, parlando alla Radio Bavarese – emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi». Ma il futuro Benedetto XVI non si lasciava confondere dal pessimismo e con grande lucidità aggiungeva che i cristiani avrebbero ritrovato l’essenziale, «la fede nel Dio Uno e Trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine», e avrebbero sperimentato «di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica». È questo l’intento con cui le quindici Chiese sorelle del Triveneto vogliono raccogliersi e cercare insieme la forza che viene dall’Eucaristia, in un convegno a Verona che occuperà l’intera giornata del 30 settembre e muoverà dalla sublime basilica di San Zeno alla Cattedrale. C’è un’analogia tra Benedetto XVI e Francesco: l’esigenza di alimentare la fiamma della luce gentile che è l’amore del Risorto a partire dalla consapevolezza della condizione di fragilità dei suoi discepoli, che sono come un minuscolo seme di senape, una presina di lievito, un piccolo gregge di agnelli. Le fatiche del tempo presente, con le tensioni generate da fattori culturali, finanziari, politici, ambientali, invitano a osservare l’enigma della disgregazione dell’uomo, delle sue relazioni, della sua fede, e sale verso il Cielo un’invocazione perché l’Eucaristia doni la forza che genera comunione e novità di vita: la potenza che viene dall’unico Pane cotto con il Fuoco vivo dello Spirito e dall’unico Vino pigiato con il torchio della Croce. Ritrovare forza dall’Eucaristia, dunque, non ritrovare un’Eucaristia rafforzata. Il gregge che abita nelle terre della scalcinata Europa – troppo sicura di sé per ritenere di aver bisogno del Crocifisso risuscitato – e che il giovane Ratzinger aveva visto quasi a occhi aperti, molti decenni orsono, assottigliarsi fino a diventare pusillus, povero, privato dei suoi sicuri recinti e delle robuste e giovani forze, non ha bisogno di escogitare una diversa “struttura” liturgica. La freschezza, quasi intemperante, con cui sale oggi dal Synodus Ecclesiae il desiderio di comprendere e celebrare il culto di Cristo ci sprona a conoscere, modellare, rinnovare sempre più il linguaggio della liturgia, eppure mai il convegno di Verona vorrebbe presentare un nuovo “rompicapo” o un quesito pastorale del tipo: con quali espedienti renderemo le nostre celebrazioni più chiare, più attraenti, più invitanti, più efficaci, più aderenti all’uomo contemporaneo, ai giovani, ai vecchi, ai bambini? La liturgia deve piuttosto riscoprirsi servizio divino, se in essa gorgoglia come da un torrente impetuoso l’Amore del Pastore Buono che dà la vita per le sue pecore – siano molte o poche, grasse o magre, ricche o povere, colte o ignoranti, giovani o vecchie, sane o malate. Se è Dio che ci serve divinamente, se da lui riceviamo forza, se la sua Pasqua è come pioggia discesa dal Cielo sulla terra assetata, allora la Chiesa non si deve preoccupare dell’Eucaristia, ma occuparsene amorevolmente. Il convegno di Verona proverà a considerare non la struttura del prete che presiede e consacra, ma la grazia del pastore che guida e innalza al Cielo il Pane della vita e il Calice della salvezza; non la struttura del diacono che assiste, ma la grazia dell’angelo che canta la risurrezione e cura le membra sofferenti; non la struttura dell’accolito o ministrante che porta vasi sacri e accende turiboli e candele, ma la grazia di un serafino che s’inchina di fronte alle nozze dell’Agnello; non la struttura del lettore che ricopre i turni di tutte le celebrazioni, ma la grazia di un profeta dalle labbra impure purificate con i carboni mandati da Dio; non la struttura del salmista che ci fa ripetere un ritornellino semplice-semplice, ma la grazia di un profeta che sta sulle mura di Gerusalemme e canta anche quando tutti vorrebbero appendere le cetre; non la struttura di chi mette qualche vasetto di fiori qua e là, di chi spazza via la polvere, di chi sposta attaccapanni di casule, di chi passa lo spray sui banchi della chiesa, di chi sistema i sussidi con i canti, ma la grazia di coloro che amano il tempio e lo fanno fiorire come il giardino del Risorto, lo fanno brillare come la luce del Tabor, lo fanno profumare come il buon odore della Carità di Cristo.

don Gianandrea Di Donna
Direttore Ufficio Diocesano per la Liturgia

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