Lavoro e Covid-19. Mons. Lagnese: “Necessari segnali di fiducia e scelte responsabili in favore di chi non ce la fa”
"Alle mille domande circa il pericolo del contagio e i rischi che si corrono per la salute propria e per quella dei propri cari, si aggiungono, per tanti, preoccupazioni forti legate all'incertezza circa il futuro del proprio lavoro. Mi riferisco, in particolare, al vasto mondo di coloro che operano nei settori del commercio, della ristorazione, dell’artigianato e del turismo", dice il vescovo di Caserta e amministratore apostolico di Ischia, soffermandosi poi sul dramma "dei tanti lavoratori irregolari, di quelli coinvolti nel lavoro nero, dei disoccupati, dei precari in genere, dei tanti, italiani e stranieri, che sono costretti a lavorare senza alcuna dignità e nella totale illegalità"
Dopo un anno di Covid, le conseguenze economiche della pandemia si stanno facendo sentire sempre di più. Sono state tante le manifestazioni di piazza di varie categorie di lavoratori. Sicuramente tra chi sta pagando il prezzo più alto della crisi, ci sono quei lavoratori che già prima della pandemia avevano poche garanzie e tutele ed erano sfruttati. In vista della festa dei lavoratori, parliamo con mons. Pietro Lagnese, vescovo di Caserta e amministratore apostolico della diocesi di Ischia.
Eccellenza, un anno fa ha scritto una lettera agli imprenditori di Ischia richiamandoli a un atto di responsabilità, di giustizia e di riparazione verso i propri dipendenti. Quanto è attuale quell’appello oggi?
Penso che il mio invito agli imprenditori ischitani valga ancora oggi e che valga anche di più. Vale per un’isola come Ischia che basa la sua economia completamente sul turismo, vale per Caserta – dove sono da tre mesi come nuovo vescovo dopo la morte di mons. D’Alise, in seguito al contagio da Covid-19 -, che convive da sempre con la piaga della mancanza di lavoro (Caserta è tra le città italiane ai primi posti per presenza di giovani Neet); e penso che valga per tutto il nostro Paese alle prese con le conseguenze di una pandemia la cui fine è ancora incerta. La gente è stanca, scoraggiata e preoccupata. Per questo
occorrono segnali di fiducia e iniezioni di speranza da parte di chiunque abbia la possibilità di compiere scelte responsabili in favore di chi non ce la fa.
Alle mille domande circa il pericolo del contagio e i rischi che si corrono per la salute propria e per quella dei propri cari, si aggiungono, per tanti, preoccupazioni forti legate all’incertezza circa il futuro del proprio lavoro. Mi riferisco, in particolare, al vasto mondo di coloro che operano nei settori del commercio, della ristorazione, dell’artigianato e del turismo – tutte categorie a forte rischio – che in questi mesi hanno lavorato poco o nulla e per le quali gli interventi dello Stato, sul fronte della cassa integrazione, delle agevolazioni al prestito, dei ristori e della sospensione di pagamenti di rate e obblighi fiscali, hanno alleviato solo in parte i problemi scaturiti da una pandemia, le cui conseguenze sociali ed economiche di certo continueranno anche una volta finita la crisi sanitaria.
Per non parlare poi dei tanti lavoratori irregolari, di quelli coinvolti nel lavoro nero, dei disoccupati, dei precari in genere, dei tanti, italiani e stranieri, che sono costretti a lavorare senza alcuna dignità e nella totale illegalità.
A dicembre 2020 lei ha scritto anche ai sindaci, invitandoli a “non fare più le cose da soli” e ad “agire in termini di comunità” imparando “l’arte del ‘noi’”: quanto possono fare le amministrazioni locali di fronte all’emergenza?
C’è bisogno che impariamo a pensare e agire in termini di comunità, che ci mettiamo insieme e, insieme, facciamo alleanze; c’è bisogno in particolare che la politica rinunci a particolarismi sterili e contrapposizioni inutili e sia capace di porsi seriamente al servizio del vero bene comune.
C’è bisogno, come dice Papa Francesco, di una sana politica “che pensi con una visione ampia e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi” (FT n. 177). Solo una politica “migliore”, che sappia mettere al centro le persone, cercando di convogliare passioni e risorse per una rinascita del nostro territorio, potrà riuscire in quest’opera. Una politica che, prima di amministrare, sappia educare e appassionare al bene comune.
Il Papa ha detto che peggio di questa crisi, generata dalla pandemia, c’è solo il dramma di sprecarla…
Penso che questo tempo, segnato dalla pandemia, sia per certi versi paragonabile a quello di una guerra. La guerra, ogni guerra, breve o lunga che sia, genera sempre, per chi la vive, uno spartiacque, una frattura, le cui conseguenze segnano anche gli anni che vengono dopo. E così mi sembra che sia pure questo tempo: un crinale della storia, una sorta di spartiacque nella vita di questo secolo.
E come dalla guerra, anzi dalle due guerre del secolo passato, l’uomo uscì diverso, così sarà per l’uomo di questo tempo: dalla pandemia usciremo diversi. Non sappiamo se migliori o peggiori, ma di certo diversi… Papa Francesco ce lo ha ricordato più volte: se migliori o peggiori dipenderà da noi, solo da noi. E ci ha detto pure che il rischio di farci prendere dalla tentazione di rinchiuderci in noi stessi c’è.
“Passata la crisi sanitaria, – ci ha ricordato nella Fratelli tutti – la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica”. E ha aggiunto: “Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato” (FT n. 35).
Lei è anche il delegato della Conferenza episcopale campana per i problemi sociali e il lavoro. In Campania quanto si è sofferto per l’emergenza visti gli alti tassi di disoccupazione, di precariato e di lavoro in nero?
La nostra Regione, insieme ad altre del Mezzogiorno, è tra quelle che ha pagato di più in termini di crisi economica e sociale. All’endemica piaga della disoccupazione e del lavoro in nero, si è aggiunta una situazione di disagio economico che ha riguardato tante altre famiglie che si sono trovate a fare i conti, a causa della pandemia, con la mancanza di lavoro.
Ciò ha prodotto l’aumento esponenziale di nuovi poveri e il rischio per nulla improbabile che per tanti possano aprirsi le porte per un lavoro di manovalanza nella criminalità organizzata.
Grandissimo è stato l’impegno della Chiesa accanto agli ultimi: cosa può fare ancora?
L’opera della Chiesa è stata e continua a essere straordinaria. Ogni parrocchia, anche quella meno organizzata nel servizio della carità, ha svolto una funzione di sostegno a tante famiglie coinvolte nel disagio economico e non solo. I nostri centri Caritas sono stati, per tanti, luoghi di autentica accoglienza e, nei momenti più difficili, quando tutto era fermo a causa del lockdown, i nostri preti e i tanti volontari della carità hanno continuato a svolgere una funzione incredibile in termini di vicinanza e di sostegno concreto, adoperandosi non solo nel dare ciò di cui c’era bisogno ma anche coinvolgendo tante famiglie e realtà a mettersi a disposizione perché i beni fossero messi in circolo. Ora occorre continuare, accompagnando quanti sono presi dalla stanchezza e dallo scoraggiamento, aiutandoli a superare sfiducia e rassegnazione.
La pandemia ci ha fatto capire quanto siano importanti i contatti personali, quanto la gente abbia bisogno di essere incontrata, ascoltata e considerata.
La Chiesa non ha ricette da proporre ma può offrire la sua testimonianza: quella di esserci sempre, accanto all’uomo, ad ogni uomo, con l’impegno di non dimenticarsi di nessuno, anzi andando alla ricerca soprattutto di chi è scartato, per annunciare la bella notizia, quella dell’amore di Dio per ogni uomo e ogni donna e testimoniare che per quell’amore Dio non ha risparmiato suo Figlio.