La pedagogia del vedere. Uno “sguardo contemplativo” sulla tragedia della guerra
Il rischio che giornalisti e opinione pubblica corrono anche in terra ucraina è l’illusione di capire solo attraverso i frammenti quotidiani quanto sta avvenendo.
“Era tutto abbandonato, completamente silenzioso, mi muovevo tra le macerie e non riuscivo a trovare un modo di fotografare, non sapevo da dove cominciare in mezzo a tutta quella distruzione. Poi uno scrittore che mi accompagnava mi portò sulla terrazza dell’hotel Hilton e mi disse ‘Cosa vedi?’. Una città distrutta, ‘Guarda meglio, ancora più lontano.’ Sullo sfondo c’era del fumo, dei panni stesi, cose vive. Allora mi disse ‘Non una città morta ma ferita, ancora viva, scendi e fotografa questo’”. Francesca Mannocchi inviata di guerra in Ucraina e vincitrice del Premio Flaiano 2022 cita questo dialogo tra uno scrittore e il fotografo Gabriele Basilico a Beirut alla fine della guerra.
Lo pone all’interno di una sua riflessione sull’intensità dello sguardo di chi in presenza vede e racconta la guerra e sull’intensità dello sguardo di chi segue la guerra da casa tramite i media.
“Se è vero come è vero che possiamo potenzialmente essere velocemente ovunque – scrive Francesca Mannocchi a proposito dei due sguardi – poco, tuttavia, rischia di essere davvero afferrato”.
Il rischio che giornalisti e opinione pubblica corrono anche in terra ucraina è l’illusione di capire solo attraverso i frammenti quotidiani quanto sta avvenendo. Anche i vuoti, il non detto, il non ripreso sono messaggi importanti che la velocità impedisce di cogliere rendendo difficile unire allo sguardo veloce degli occhi lo sguardo lento del pensiero.
“Il vicino era la distruzione il lontano era la vita” diceva il fotografo ricordando i suoi giorni a Beirut quando si chiedeva cosa potesse riprendere di diverso dalle macerie, dai feriti, dai morti. Cosa c’era d’altro da fotografare?
Occorre, afferma Francesca Mannocchi, “uno sguardo contemplativo”, uno sguardo che ha bisogno di tempo per cogliere l’insieme attraverso i frammenti che sono velocemente trasportati dai media in case lontane dai luoghi, corpi e pensieri devastati.
Qui nasce l’auspicio che sia più avvertita e condivisa la necessità di una pedagogia del vedere, di un’educazione al guardare non solo i segni di morte e distruzione.
Difficile avere questo sguardo mentre, non solo in Ucraina, parlano ancora le armi, gli innocenti continuano a morire e scorrono immagini usa e getta che rischiano di portare all’assuefazione. Difficile coglierli perché i segni di vita sono fragili e forti come quei fiori che passando attraverso invisibili fessure rompono l’asfalto del buio e incontrano la luce. Torna l’invito dello scrittore al fotografo sulla terrazza di Beirut: “Guarda meglio e ancora più lontano”.