Giorno vittime terrorismo. Fiasco: “Le ferite guariscono se si soddisfa il diritto alla verità”
È passato tanto tempo dagli anni di piombo, eppure, dice al Sir il sociologo, “quelle vicende si distanziano nel tempo, ma non per l’urgenza, per l’appunto, di pervenire alla risposta: perché sono state assassinate, per responsabilità morale e politica di chi, con quale procedimento manipolativo sono divenute bersaglio. E il diniego, lo stato di negazione di chi fu sodale agli esecutori, continua a tirare su il muro che ostacola questo risarcimento delle vittime”
Domenica 9 maggio si è celebrato il Giorno della memoria delle vittime del terrorismo. Da più voci, prima tra tutte quelle del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è stata sottolineata la necessità che si raggiunga una completa verità sugli anni di piombo. Ne parliamo con il sociologo Maurizio Fiasco.
Gli arresti in Francia, dopo tanti anni, di terroristi che hanno segnato un periodo molto buio per il nostro Paese cosa significano oggi?
Che se non si voglia solo riservare retorica deferenza alla memoria delle vittime, si è obbligati a risarcirle: con la compiuta verità, con tutta la verità. Lo ha ammonito ieri il presidente Mattarella.
Quelle vicende si distanziano nel tempo, ma non per l’urgenza, per l’appunto, di pervenire alla risposta: perché sono state assassinate, per responsabilità morale e politica di chi, con quale procedimento manipolativo sono divenute bersaglio. E il diniego, lo stato di negazione di chi fu sodale agli esecutori, continua a tirare su il muro che ostacola questo risarcimento delle vittime. Con la narrazione falsa e reticente, che non è tanto cattiva storiografia, quanto una tossina che pur circola, pronta a contagiare qualcuno delle nuove generazioni. E così il volano riprende a girare.
Quegli arresti hanno un valore anche simbolico?
Si può considerare un mero simbolo porre fine a una beffa durata decenni? Gli effetti dei reati di terrorismo non si sono estinti, ma proseguono: per la lesione permanente che hanno arrecato, nell’ordine, alle vittime “persone singole”, alla libertà politica degli italiani e alle istituzioni che liberamente ci siamo dati dopo il 25 aprile del ‘45, al segmento delle generazioni contemporanee a quei fatti. Infine,
se non appurata interamente la verità, e quindi non soddisfatto appieno il diritto a conoscerla in pubblico, i “dispositivi” psicologici e tecnici di quegli anni potranno riprodurre nuove stagioni: d’intossicazione ideologica, di violenza verbale e fisica, di pericolo per la democrazia.
Servono a curare le ferite?
Non gli arresti “in sé”. Alla fine a quei quasi ottuagenari sarà accordata clemenza. Ma
le ferite guariscono se si soddisfa il diritto alla verità e si dissolve il clima sociale collusivo con gli aggressori.
Clima che ricorre sempre. Il conformismo porta a ripetere “è bene che venga dimenticato”. C’è di più. Trasformando oggi i carnefici in vittime, noi orientiamo un sentimento collettivo di colpa verso coloro che essi uccisero. Si può accettare un simile, osceno contrappasso?
Anche Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato il 17 maggio 1972, ha chiesto soprattutto il diritto a sapere tutta la verità…
Rendiamo manifeste le implicazioni di quel che ha chiesto Mario Calabresi. E confrontiamole con le conseguenze della replica di Luigi Manconi nell’intervista a “Il Riformista” del 29 aprile. Per Calabresi, “ci devono pezzi di verità. Sono uomini e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo Paese. Ci mancano ancora dettagli, soprattutto le loro voci per ricostruire quei fatti così tragici”. Una sintesi completa, queste poche parole. Luigi Manconi crea uno slittamento di significato e critica provvedimenti come un “dispositivo tecnico”. E sentenzia che gli arresti siano “una gravissima deformazione dell’idea illuminista, garantista e liberale di giustizia e della concezione preventiva della pena come deterrenza”. Disconosce così che il figlio della vittima abbia chiesto assunzione di responsabilità, per l’appunto. Le due persone – Calabresi e Manconi – espongono in modo chiaro le posizioni simmetriche:
da un lato di chi porta su di sé le cicatrici della traduzione in atti dell’ipnosi collettiva della violenza di quasi mezzo secolo fa; dall’altro lato, di uno che nella “fase aurorale” ha condiviso l’idea della rivoluzione anche con la violenza (alla stregua dei demoni di Dostojevski).
Salvo poi denegare le proprie responsabilità morali, quando l’ondata rivoluzionaria annunciava l’inevitabile fallimento e che il relativo progetto sarebbe uscito sconfitto.
In questi anni che ricostruzioni sono state fatte di quegli anni?
C’è una nicchia letteraria, negli scaffali delle librerie, di memoriali, biografie e ricostruzioni dalla parte degli autori. E c’è una filmografia, che si è avvalsa – vantandosene – della consulenza degli ex terroristi, che così hanno avuto l’opportunità di esporre in pubblico il loro punto di vista.
Ricostruzioni gonfie di falsità, che convergono su un obiettivo. Oscurare come la vittima, con la sua stessa presenza, agisca da testimone della colpa collettiva e la orienti.
E come rammenti che le posizioni assunte – tanto dalle élite intellettuali, quanto da semplici cittadini – davanti a ciò che si consumava sotto gli occhi erano contrassegnate o da un sentimento di collusione (a esempio la campagna contro il commissario Calabresi) o di impotenza, che spingeva a non prender posizione.
Se oggi non si riuscisse a conoscere la verità di quegli anni quali rischi correremmo?
Se sono tacitate le vittime che continuano a reclamare la verità, tutta la verità, e svolgono una funzione di supplenza, perché richiamano la Repubblica a mettere un punto fermo nei libri di storia, si rinnova il monito: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo” (Santayana, 1905). La responsabilità giudiziaria è solo una fonte per pervenire alla verità, tanto meno nella mera esecuzione penale della condanna.
Quali sono i meccanismi per cui delle persone normali diventano capaci di compiere scelleratezze?
La strategia della violenza utilizza la funzione perversa del mito. Del mito edificato sull’impostura.
Dal mito della “Resistenza tradita” nacque, per effetto della “differenziazione competitiva” dei “figli” dai “padri”, il convincimento che i figli “ideali” dei partigiani sconfitti avessero la missione di raccoglierne il testimone e puntare alla rivoluzione armata: come rivincita in omaggio ai padri ingannati e perdenti. A destra analogo fenomeno ha riguardato non pochi figli di ex repubblichini di Salò. Che vagheggiarono, con ammazzamenti e stragi, il riscatto del fascismo, dalla debacle militare nella guerra civile. E qual è l’attualità? Sta nella pericolosa sostituzione, nello schema mitologico, della figura degli “sconfitti”. In questa narrazione essi, avendo seguito una “ribellione giusta”, hanno perso perché lo Stato era militarmente più forte.
Affermare infatti che in Italia si è combattuta una guerra civile e che lo Stato ha poi certamente vinto equivale a una pericolosa legittimazione postuma. Si lascerebbe circolare una velenosa tossina, che recita così: “Se era sbagliata la lotta armata, ciò era dovuto al fatto che, a fronte di idee giuste, nobili e quindi motivanti la ribellione, sussisteva la disparità dei rapporti di forza, che era tale da assicurare la sconfitta”.
Potremmo ricadere negli stessi “inganni”, soprattutto in tempi difficili come quelli che viviamo oggi, a causa della pandemia?
Quel che si rischia è un passaggio del testimone con l’anello intermedio oggi di tanti settantenni o ottantenni, con un punto del mito perenne. La rivoluzione tradita e la legittimità dell’antagonismo e della critica delle armi.
Ci sono elementi comuni tra la fabbricazione di personalità di terroristi italiani di allora e quella di terroristi jihadisti di oggi?
Al netto di narrazioni e contesti storico politici non confrontabili, vi sono procedure manipolatorie con un’ingegneria similare. L’ha descritta con precisione Robert Pape, un sociologo statunitense che ha svolto rigorose ricerche sul terrorismo, in particolare suicidario. Un’organizzazione scientifica, governata dall’élite, rende accettabile, e anzi nobile, quella violenza che il sentimento naturale aborrisce. Pianifica, insomma, una psicologia sociale della responsabilità, sostenuta da insegnamenti, cioè da una pedagogia che altera la persona. La narrazione storico-mitologica fornisce il convincimento di una missione trascendente. E così il male assoluto si converte nell’immagine del bene. Dopo tale innesco, avviene l’autocostruzione, l’autopoiesi del falso. Ecco perché,