Gazzi: "Nessun vaccino per lo 'tsunami sociale' del Covid. Sinergia tra professionisti non basta”
L'Ordine degli assistenti sociali risponde all'appello della Sipps: “Non abbiamo neanche livelli essenziali di prestazioni e servizi: come si può fare integrazione socio-sanitaria? Con una assistente sociale ogni 40 mila abitanti, difficile che le promesse non diventino illusioni”
“Gli assistenti sociali possono sedersi intorno al tavolo con pediatri, infermieri, psicologi, per pensare insieme a come arginare lo tsunami sociale generato dalla pandemia: ma non sarà possibile fare molto, se non ci sarà al tempo stesso un impegno delle istituzioni nel creare il contesto di norme e di risorse necessario per tradurre le promesse in fatti”: così Gianmario Gazzi, presidente dell'Ordine nazionale degli assistenti sociali, riceve e accoglie l'appello lanciato nei giorni scorsi dalla Società italiana di pediatria preventiva e sociale. Per far fronte all'emergenza sociale e all'aumento delle fragilità, Giuseppe Di Mauro chiamava infatti a raccolta professionalità come quelle degli assistenti sociali e degli infermieri, al fine di intercettare e sostenere sinergicamente le situazioni a rischio.
Dottor Gazzi, sta arrivando l'onda lunga della pandemia, sotto forma di emergenza sociale?
Più che un'onda, è uno tsunami. L'onda ha iniziato la sua crescita già a marzo e progressivamente si fa sempre più alta. Alcune delle misure messe in campo hanno lenito o rallentato la sua crescita, ma io sono molto preoccupato, insieme ai miei colleghi, per ciò che potrà succedere a marzo, con lo sblocco dei licenziamenti. Già oggi nei contesti difficili (come le città del sud ma anche le grandi città del nord) ci sono persone che hanno uno sfratto, o non riescono a pagare bollette. Accanto al disagio economico, troviamo l'aumento del disagio psicologico. Queste problematiche, con il passare dei mesi, si acuiscono. Bisogna essere pronti e questa è la più grande preoccupazione, perché non esiste un vaccino che possa curare questa crisi: serve un accompagnamento sociale, psicologico, sanitario, a seconda delle situazioni che ci troviamo davanti
A questo scopo, potrebbe essere utile la sinergia tra pediatri, assistenti sociali e infermieri invocata dalla Sipps?
Il problema della prevenzione e dell'intercettazione delle situazioni di rischio potenziale o effettivo di minorenni c'è da sempre: e da sempre si discute su come integrare non solo le figure professionali, ma anche gli ambiti frequentati dai bambini. C'è un mondo che gira intorno a loro: come può questo intercettare situazioni di rischio, povertà educativa, maltrattamento? In questo senso non posso non essere d'accordo sulla necessità di fare squadra intorno a un tema come questo. Meno convincente, ma da approfondire, mi pare la soluzione suggerita. Domando: possono essere i singoli professionisti a mettersi d'accordo su come intervenire, o ne deve piuttosto esserci un contesto di riferimento normativo? Prima di pensare all'integrazione tra pediatri, assistenti sociali e altre professioni del sociale e del sanitario, credo sia opportuno richiamare ministero della Salute, ministero delle Politiche sociali, comuni e regioni a fare la loro parte, mettendo misure, risorse e professionalità in modo strutturale. Nel contesto attuale, non abbiamo nemmeno i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi. Parliamo di integrazione socio-sanitaria, ma esistono solo i livelli essenziali dell'assistenza sanitaria, mentre attendiamo ancora quelli delle prestazioni sociali. Siamo tutti disponibili a lavorare su protocolli, formazione integrata, modelli sperimentali che possano diventare buona pratica per tutti, dal servizio pubblico al terzo settore: prima però vorrei che lo Stato, inteso come tutti i soggetti che su questo hanno responsabilità, facesse la propria parte. Se ho un assistente sociale ogni 40 mila abitanti anziché uno ogni 4 mila, come dovrebbe essere, allora è inevitabile che ogni progetto resti solo sulla carta. Di bellissimi intenti noi ne abbiamo tanti esempi: la maggior parte di questi, purtroppo, restano solo teorici.
Il Recovery Plan non offre l'occasione per dare concretezza almeno a qualche impegno?
Proprio due giorni fa abbiamo avuto la nostra audizione alla Camera sul Recovery Plan: abbiamo fatto notare come, nel capitolo sull'integrazione socio-sanitaria, non sia scritto nulla su Comuni, Regioni e ministero delle Politiche sociali, come se si trattasse solo di una questione sanitaria. Gli obiettivi descritti nel documento sono condivisibili, ma per raggiungerli concretamente, bisogna realizzare tutti gli atti normativi che aspettiamo da vent'anni. Il punto è che appunto da 20 anni la rete di servizi è logorata dall'austerity. Non possiamo dimenticare che nel 2010 e con la crisi del 2007 e 2008 si diceva che questi fossero servizi improduttivi, che la sanità fosse uno spreco ecc. Oggi abbiamo davanti agli occhi il risultato di quelle scelte: invertire la rotta dopo 20 anni non è banale, bisogna avere una visione politica ed economica e ricordarsi che questi servizi sono legati a diritti costituzionali.
Costruire intanto reti tra professionisti, almeno a livello territoriale, non potrebbe essere un buon punto di partenza?
I professionisti sui territori da sempre lavorano in rete: il problema si pone quando nella rete mancano i professionisti. Ci sono contesti in cui su un territorio non solo non esiste il servizio sociale, ma non c'è neanche un numero sufficiente di pediatri. Si dice, per esempio, che si debba contrastare la povertà educativa: ma da quanti anni i comuni faticano a gestire e tenere in vita le attività e i centri a questo preposti? Noi possiamo anche sederci intorno al tavolo con pediatri e infermieri, fare un protocollo per lavorare insieme sulla prevenzione, che è stata la prima vittima dell'austerity; ma se non c'è nessuno nei municipi, nei comuni, nelle Asl, mancano le persone per dare gambe a questi protocolli e impegni. E genereremo solo illusioni.
La priorità delle priorità?
La definizione dei livelli essenziali e organizzativi delle prestazioni: è dalla 328 che aspettiamo. Se vogliamo valorizzare le risorse che abbiamo, deve essere ben chiaro come queste debbano essere spese. Attualmente non abbiamo un sistema di welfare unico, ma una somma molto differenziata di servizi e quindi di diritti. Oggi questo non è più tollerabile: il Recovery Plan rappresenta la grande occasione per garantire diritti essenziali: non dobbiamo perderla.
Chiara Ludovisi