Ucraina: spiegare la guerra ai bambini. L’esempio di Mia, nata sotto le bombe
È difficile parlare della guerra ai bambini, è difficile parlargliene senza metter loro paura. Nelle scuole, nelle famiglie, qualcuno prende coraggio e affronta questi argomenti, poi i pensieri rimangono lì, sospesi nella testa di bambini che, nel tempo, li rielaborano e in ogni occasione devono trovare un sostegno, una parola di speranza, la possibilità di esserci e di dare il proprio contributo portando qualcosa a chi non ha più nulla, o accogliendo con un sorriso il coetaneo che apre la porta della classe per un nuovo primo giorno di scuola
Mia è nata in un rifugio antiaereo improvvisato, a Kiev, figlia di una donna giovane, alla quale si sono rotte le acque mentre suonavano gli allarmi antiaerei. Se chiudo gli occhi immagino la concitazione, mista all’emozione, alla paura, allo sbigottimento e al coraggio. Nascere è un evento naturale; arriva semplicemente quel momento in cui la creatura mette fuori la testolina e non sa se è il momento sbagliato, oppure quello giusto, perché nascere è sempre un segnale di vita.
Immagino che ci sia stato qualcuno accanto alla mamma di Mia capace di far nascere un bambino.
Mi viene da pensare che in un Paese moderno, ma in cui sono ancora forti alcune ataviche tradizioni come in Ucraina, ci siano donne e uomini capaci di assistere ad un parto improvvisato. Qualcuno avrà portato dell’acqua calda, degli asciugamani puliti (ricordiamoci che il tutto è avvenuto in un tunnel della metropolitana); qualcuno avrà tenuto dei teli aperti per proteggere un evento a cui dovrebbero partecipare solo pochi intimi.Forse un giorno intervisteranno la mamma di Mia e racconterà a tutti nel dettaglio cosa è accaduto. Noi lo possiamo solo immaginare, possiamo fantasticare per sintonizzarci emotivamente con una realtà tanto vicina.
Anche un altro piccolo è nato in un letto arrangiato nei sotterranei di un ospedale; e chissà quanti altri in questo tempo di guerra. Poi ci sono i bambini che sono stati accompagnati alle frontiere, ne abbiamo visti alcuni affidati a chi li avrebbe portati in salvo da qualche parte, all’incontro con qualche parente oltre confine.
Chissà cosa si dice ad un figlio quando, per salvarlo, lo allontani da te: quali parole scegliere per salutarlo, quale speranza lasciargli nel suo cuore.
Mettendo in salvo i bambini si mette in salvo il futuro, mentre già pensiamo che possano tornare a casa presto, ritrovare la loro quotidianità, i loro cari, che non debbano soffrire oltremodo qualcosa che, al di là delle analisi storico-politiche è sempre complicato accettare.
Poi ci sono altri bambini che sono rimasti lì, in Ucraina, che hanno imparato a preparare le molotov, che si sentono di partecipare ad una resistenza, che sono diventati improvvisamente grandi, che hanno dovuto far spazio a conoscenze completamente diverse, che hanno imparato a riconoscere le bombe, a studiare il territorio e le mosse del nemico.
Oggi la guerra in Ucraina la sentiamo più vicina, nel cuore del nostro continente, eppure bambini sono nati e sono dovuti fuggire dai bombardamenti in Siria, in Afghanistan, in Etiopia e in tanti altri Paesi dove infuria la guerra.
Non importa dove sia una guerra. La guerra è sempre brutta, nella guerra sono sempre gli anziani, le donne e i bambini che pagano il prezzo più alto. Chi rimane a combattere lotta per il proprio Paese, per il futuro dei propri figli, vive una forza e degli ideali che mantengono alta la speranza; chi è lontano, chi non può farlo, chi sente di non avere più abbastanza anni per poter ricostruire quanto è stato distrutto, chi già si confronta con la perdita di un proprio congiunto, vive emozioni, pensieri, una realtà completamente diversa.
È difficile parlare della guerra ai bambini, è difficile parlargliene senza metter loro paura.
Nelle scuole, nelle famiglie, qualcuno prende coraggio e affronta questi argomenti, poi i pensieri rimangono lì, sospesi nella testa di bambini che, nel tempo, li rielaborano e in ogni occasione devono trovare un sostegno, una parola di speranza, la possibilità di esserci e di dare il proprio contributo portando qualcosa a chi non ha più nulla, o accogliendo con un sorriso il coetaneo che apre la porta della classe per un nuovo primo giorno di scuola. Non importa la provenienza o il colore della pelle, quel bambino ha bisogno di tutti noi.
(Articolo originariamente pubblicato su “Il Risveglio Popolare”)
Cristina Terribili *
*Psicologa, psicoterapeuta