“Silent leges inter arma”, ma parli la ragione non incendiaria. Nota geopolitica
Serve l’attenzione a non avvelenare l’aria già tesa del nostro tempo, introdotto, con la pandemia, a una mentalità di guerra, foriera di un maccartismo strisciante che vede disertori e quinte colonne in quanti si permettano il lusso della ponderazione.
Un timido spiraglio potrebbe aprirsi sulla crisi ucraina: spostandosi dai riflettori, ora potrebbe agire sottotraccia. Il viaggio di Bennett a Mosca marca un inedito nella politica estera di Israele, con l’ovvio benestare Usa. E fa ipotizzare che sul tavolo negoziale possano apparecchiarsi utili oggetti di scambio, come il disimpegno russo da aree dove il Cremlino cerca un ruolo di croupier concorrenziale all’Occidente. Stanti le nuove pressioni israeliane su Teheran, potrebbe trattarsi di un allentamento dell’argine russo sull’Iran, oppure di transazioni sulla Siria, sull’Africa centrale o sulla Libia. In quest’ultimo caso, lo sblocco sarebbe proficuo anche al sodalizio italo-francese formalizzato a novembre con il Trattato del Quirinale, che vede Parigi sganciarsi da Berlino per essere protagonista del Mediterraneo.
Significativo anche il contatto telefonico tra Putin e Macron, segno di un’Europa che non ha rinunciato al dialogo, nonostante il suo cambio di paradigma. Sino a ieri, essa è stata il freno kantiano alle accelerazioni hobbesiane degli Usa, disturbando la pattuglia neoconservatrice dell’amministrazione Bush ma anche di Obama (il rinvio è a Nuland, moglie dell’ideologo neocon Kagan). Oggi, invece, l’Europa pare investire sull’hard power. Il tema degli aiuti militari a Kiev ne è segno.
Sinora è caduta nel vuoto la richiesta di mezzi d’aviazione (che invero provocherebbero la soverchia risposta russa via aria), ma l’iniziativa di armare si presta comunque a controindicazioni. Prolungando il conflitto, spingerebbe il più forte a uscire dall’impasse sferrando colpi estremi: la letteratura conferma che, dove si inviano armi, l’escalation è assicurata. In secondo luogo, come e nelle mani di chi dovrebbero arrivare le armi? Certamente passando da ovest, con coperture civili, sovrapponendosi pericolosamente ai corridoi umanitari. E se gli errori fatti con i mujaheddin iracheni e afghani ha insegnato qualcosa, si pone il problema dei destinatari: com’era prevedibile, l’abilitazione a partire data ai “volontari” sta agevolando l’arrivo di mercenari, in aggiunta ai gruppi paramilitari che dal 2014 le autorità stentano a smobilitare. Ciò getta le basi di una futura balcanizzazione. Se ci si cura dell’orgoglio patriottico dei resistenti, si deve anche riconoscere che la nazione ucraina, Donbass a parte, non è del tutto coesa. E il protrarsi del conflitto potrebbe suggerire a Putin la mossa di elevare il Dnepr a confine di due entità politiche, evitando i costi di una occupazione sul corpo morto di un’Ucraina interamente desovranizzata. Il che sarebbe ancora in linea con la rappresentazione di un intervento non contro i fratelli ucraini, ma contro un governo che permette agli Usa di negare alla Russia il suo perimetro securitario, sebbene Washington si curi da sempre del proprio, anche off-shore. In questi termini, l’aggressione assume quasi il profilo dell’Operazione Catapult con cui, nel 1940, Churchill, ordinò di cannoneggiare la flotta francese al largo di Mers-el-Kébir, sacrificando 1.300 alleati per evitare che le navi passassero in mano tedesca dopo l’armistizio.
Si sa, con Cicerone, che “silent leges inter arma”. Proprio per questo, all’Occidente occorrono lucidità e lungimiranza, cui osta un’informazione contraffatta da ambo le parte: videogiochi spacciati per immagini di guerra, filmati recuperati dal 2014, ecc. Peggio ancora il clima incendiario delle dichiarazioni ufficiali basate su notizie non verificate; delle reprimende marca neocon contro i governi che inviano “orsacchiotti” anziché distribuire armi in lungo e in largo (eppure non è trascorso un secolo dalla provetta agitata in sede Onu a monte dei 200.000 civili morti in Iraq sino al 2017); degli analisti pronti a giurare su una Russia suicida lanciata all’assalto del mondo. Con il sussidio della psicolingua (buona a ostacolare la comprensione dei fenomeni), si delineano profezie che ambiscono ad avverarsi, caldeggiando la logica preventiva di evitare la tragedia temuta realizzandola in anticipo. A coronare il tutto, gli strateghi del “tanto peggio tanto meglio” che in tv auspicano senza filtri un crescendo sanguinoso, per propiziare la caduta del regime putiniano.
Responsabilità si impone all’espertocrazia, cautela a chi confida in essa senza considerare i riduzionismi prospettici delle “deformazioni professionali”. Serve l’attenzione a non avvelenare l’aria già tesa del nostro tempo, introdotto, con la pandemia, a una mentalità di guerra, foriera di un maccartismo strisciante che vede disertori e quinte colonne in quanti si permettano il lusso della ponderazione. A farne le spese non sarebbero soltanto i corsi su Dostoevskij o Masha e Orso, ma tutto il senso comune, assieme a una politica che rischia di restare prigioniera delle polarizzazioni dapprima cavalcate. Se le leggi sono mute, parli la ragione illuminata dalla virtù della prudenza orientata al bene, sostenuta da pilastri realistici e non ideologici. Per costruire la pace con mentalità di pace, anziché surrogati che tengono finché pecunia non olet (di sangue).
Nel marzo dello scorso anno, a Baghdad, papa Francesco ebbe a dire: “Tacciano le armi, si dia voce agli artigiani della pace e ai piccoli, alla gente semplice che vuole vivere, lavorare, pregare in pace”. La scorsa settimana è tornato sulla necessità di contrastare i mercati di morte che, con lucrosi contratti, foraggiano di armamenti i conflitti “dimenticati” in Yemen ed Etiopia. Ma ha parlato anche della necessità di disciplinare l’arma della lingua, tanto più letale quando, con studiato cinismo, genera tensione e aggressività, amplificate nell’era dell’ipercomunicazione mediatica. Moniti non casuali, validi sempre, oggi certamente imperativi.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense