Saturi di immagini senza bellezza. La crisi dell’arte è un aspetto assai significativo del nostro tempo
Le immagini perdono senso e valore, diventano “elementi” da “reinviare”, “archiviare”, “cancellare”, “snaturare”, “filtrare”, “trasformare” attraverso le app.
La crisi dell’arte è un aspetto assai significativo del nostro tempo.
Lo è ancor di più se pensiamo alla quantità esponenziale di immagini a cui, in tutti gli istanti della nostra giornata, siamo sovraesposti. Persino i nostri smartphone sono contagiati dall’image overload. Centinaia, migliaia di scatti sono raccolti in un solo dispositivo, alcuni catturati da noi stessi, altri ricevuti, altri ancora scaricati.
Si tratta di una saturazione atrofizzante: l’acquisizione e lo scambio avvengono in modalità talmente veloci che non abbiamo neppure il tempo di “guardare” davvero. Le immagini perdono senso e valore, diventano “elementi” da “reinviare”, “archiviare”, “cancellare”, “snaturare”, “filtrare”, “trasformare” attraverso le app. Soprattutto riproducono #meme che condizionano il processo imitativo e omologante, insinuandosi massicciamente fra i giovani.
Tutte le immagini del nostro tempo hanno modelli a cui assomigliare, assimilarsi, persino quelle che immortalano cibi e bevande. Funziona tutto ciò che è “pubblicabile” e quindi in grado di raccogliere “like”.
Questa tendenza potrebbe sembrare un aspetto marginale della nostra cultura, invece non lo è affatto perché con questo sistema iconico i nostri figli comunicano, si approcciano al mondo e ne acquisiscono le strutture, lo “conoscono”. Il processo ha dunque un risvolto epistemologico.
Cosa davvero si riesce a esplorare e conoscere attraverso questo gioco infinito di specchi deformati e deformanti?
La realtà? L’illusione? Le nostre proiezioni? Quelle degli altri? E soprattutto: così non veniamo forse assorbiti da una sorta di grande agorà virtuale, in cui diventiamo fruitori compulsivi anche semplicemente di immagini?
E l’arte? Cosa c’entra? L’arte non c’entra nulla, è proprio questo il punto. Da questo sistema viene marginalizzata: non serve, diventa un inutile appesantimento nella creazione dell’elemento specifico e occasionale. Non serve, in quanto espressione culturale e non mero intrattenimento.
La parola “arte” definisce ogni tipo di forma estetica, ma soprattutto creativa e quindi originale, che avvalendosi di abilità innate e acquisite, sviluppate anche attraverso studio ed esperienza, riesce a suscitare emozioni e a trasmettere messaggi attraverso un linguaggio universale. Essa ha uno spessore intellettuale, fa riferimento alla tradizione puntando gli occhi al futuro.
Soprattutto l’arte è la sublimazione del pensiero critico dell’uomo ed è anche una disciplina attraverso la quale esso può immergersi nelle profondità del proprio io. Come non pensare, ad esempio, all’enorme potenziale e ai benefici dell’arteterapia, come potente mezzo di esplorazione psicanalitica, fondamentale passaggio nel processo di autoidentificazione degli adolescenti. La psicologia molto spesso parla il linguaggio dell’arte e viceversa. Ma la “selva oscura” delle immagini che bombardano i nostri figli non permette di certo questa esperienza. Anzi, al contrario, quella selva li confonde e restituisce agli adolescenti una visione alterata di ciò che li circonda.
Nell’epoca della digitalizzazione la distanza fra noi e le cose, ma soprattutto fra noi e gli altri, sembrerebbe accorciarsi. “È lo spazio di un click”. Invece di fatto accade che le distanze si marchino e la “visione” si sostituisca allo “sguardo”.
Tutto scorre a velocità accelerata di fronte agli occhi dei fruitori, saturandoli. In quel rapido passaggio si scava sempre più il senso di vuoto che ferocemente risuona nella testa dei Millennials, i nostri “nativi digitali”.
Molti artisti contemporanei si stanno ribellando a questo inarrestabile flusso. Le scuole d’arte reclamano fondi e considerazione. Negli istituti scolastici si tentano progetti dove l’arte sia al centro del processo conoscitivo sin dalla prima infanzia. Ma la forza del digitale è inarrestabile e troppo seduttiva, soprattutto non si cura affatto dei contenuti che veicola.
L’uomo crede di dominare il flusso che egli stesso ha creato, ma in realtà ne è dominato.