Sandonà: “La risposta alla sofferenza è ‘più cura’, non il suicidio assistito”
Mario (nome di fantasia) 43 anni, residente a Pesaro, camionista, tetraplegico da 10 anni è immobilizzato. Muove solo il dito mignolo con cui può accendere e spegnere la Tv. Non ce la fa più. Ritiene che questa non sia vita e così inizia l'iter per chiedere di accedere a uno dei farmaci letali e farla finita. Il Comitato etico dell'Azienda sanitaria Marche di Ancona nelle scorse settimane accorda l'autorizzazione. È la prima volta che in Italia si dà il via libera al suicidio assistito fatto che riaccende immediatamente un dibattito, mai spento, sul tema delicatissimo e complesso del fine vita
Mario (nome di fantasia) 43 anni, residente a Pesaro, camionista, tetraplegico da 10 anni è immobilizzato. Muove solo il dito mignolo con cui può accendere e spegnere la Tv. Non ce la fa più. Ritiene che questa non sia vita e così inizia l’iter per chiedere di accedere a uno dei farmaci letali e farla finita. Il Comitato etico dell’Azienda sanitaria Marche di Ancona nelle scorse settimane accorda l’autorizzazione. È la prima volta che in Italia si dà il via libera al suicidio assistito fatto che riaccende immediatamente un dibattito, mai spento, sul tema delicatissimo e complesso del fine vita. Sull’argomento e sulle sue implicazioni abbiamo sentito Leopoldo Sandonà esperto di indagini antropologiche soprattutto nei suoi riflessi attuali in campo bioetico. La tentazione sarebbe subito di chiedere al professore se è d’accordo con il suicidio assistito. Sandonà ci fa capire che la questione è ben più complessa. Certo,
Sandonà, come credente, è contrario a questa risposta alla sofferenza umanamente non sopportabile derivante da certe patologie, ma non vuole ridurre il dibattito semplicisticamente al “pro e contro” e cerca il dialogo maturo e consapevole.
“Il primo elemento a cui ho pensato quando ho saputo del caso di Mario – ci dice al telefono – è stato che di fronte ai casi come questo – sia di chi vuole morire sia di chi vuole vivere – ci vuole rispetto, silenzio e meno mediaticità di quella in cui siamo immersi. Il secondo pensiero è stato di affetto e di condivisione con una persona nello specifico che soffre e con tutte le persone che si trovano in condizioni simili. Il terzo pensiero è stato che,
con l’esperienza del lavoro dei Comitati di etica, è molto difficile valutare le storie dall’esterno senza possedere spesso tutti i dettagli”.
La reazione empatica si accompagna alla valutazione tecnica che cerca di capire cosa sta succedendo e le derive che stanno passando, per esempio, attraverso lo stravolgimento di quella che è la natura dei Comitati per l’etica nella pratica clinica. “Questi – osserva Sandonà – sono nati per affrontare dei casi dilemmatici e prevenire i contenziosi piuttosto che ratificare delle procedure. Sono nati per formare gli operatori sanitari e informare la popolazione, per diventare luogo di scambio multidisciplinare e plurale sul piano valoriale”.
“Oggi – sottolinea Sandonà – il Comitato vede svilito il suo compito perché di fatto fa un lavoro procedurale, medico-legale più che etico. Se dovesse proseguire questo trend sarebbe auspicabile un cambiamento di dicitura dei Comitati stessi, oltre che la previsione di un’adeguata tutela dell’obiezione di coscienza. Infine non dimentichiamoci – e non è un fatto solo simbolico ma storico – che si dovrebbe mettere mano al Giuramento di Ippocrate che vieta al curante di dare la morte”.
Si sta dunque affermando una deriva culturale…
Oggi vedo indifferenza e questa indifferenza genera una sconfitta culturale perché stanno prevalendo le sirene dello scontro invece che quelle del ragionamento, le sirene della forza (magari espressa per via legale) rispetto all’incontro delle complessità nei luoghi deputati. Inoltre si preferisce la rassegnazione che scarta a una speranza che cura.
La bioetica, ormai biogiuridica, sarà terreno di azione del più forte che imporrà non la forza della legge ma la legge della forza, sotto altra forma.
In un certo senso accanto alla possibile morte dei Comitati siamo di fronte alla morte della bioetica propriamente detta, sciolta in una procedurale biogiuridica. La rivendicazione di un diritto presuntamente imparziale diviene la nuova norma di guida delle coscienze, non ciò che è etico diviene giusto ma ciò che è giuridicamente possibile diviene etico.
Il diritto sta diventando così un paravento delle società avanzate per non affrontare la complessità dei temi.
Ma davanti a una persona che soffre di un dolore insopportabile cosa si dovrebbe fare?
La domanda che mi sono posto non è tanto se questa sia ancora vita. Ma se questa sia ancora medicina. Una medicina fatta di terapie portate al massimo senza un pari investimento sulla cura.
Inevitabilmente la tecnica terapeutica senza cura diventa una tecnica che uccide, ed è comprensibile rinunciarvi. Il dolore e la sofferenza, come insegna l’esperienza della legge sulle cure palliative del 2010, richiedono uno sforzo integrale, territoriale, multidisciplinare, in una parola uno sforzo costoso, da ogni punto di vista. Le relazioni ministeriali a 10 anni da quella legge descrivono una situazione molto disomogenea nell’applicazione della legge depotenziata anche se non mancano elementi di fiducia sulla sanità territoriale provenienti anche dal Pnrr.
Mario ha motivato la sua scelta chiedendosi “Ma che vita è questa?”. Lei cosa risponderebbe?
Credo che la vicinanza a situazioni come queste non sia una vicinanza di argomentazioni e parole, ma di gesti e di comprensione. Idealmente gli terrei la mano. Anche senza condividere la scelta si può essere vicini con tutto l’affetto e la preghiera a una persona che soffre. Il più delle volte nella testimonianza dei curanti ho sentito dire: “Chi chiede di morire vuole per lo più essere assistito, accompagnato, accudito, non lasciato solo e non pesare sui familiari”.
Siamo a questo punto anche per l’incapacità della politica. Qual è la sua riflessione al riguardo?
La tendenza a legiferare a colpi di maggioranza su tematiche etiche è stata sbagliata. La politica dovrebbe ascoltare la società civile, molti medici e operatori che hanno fatto esperienza di bioetica narrativa.
L’altro aspetto da evitare è legiferare e poi destrutturare le leggi dall’interno, come avvenuto con la legge sulle cure palliative o con la legge sul testamento biologico.
E un credente di fronte a una situazione così dolorosa e lacerante, che atteggiamento dovrebbe avere?
Un grande senso di rispetto per il mistero della vita, che non è mai totalmente solo nelle nostre mani e che insieme è toccata potentemente dalla capacità tecnologica, nel bene e nel male. Un grande senso di affetto verso i pazienti, di vicinanza ai curanti e di impegno sociale affinché le terapie sempre più tecnologiche non dimentichino la cura. I credenti possono fare battaglie di retroguardia, come accaduto per altri referendum, o essere lievito per un ragionamento condiviso, dentro e fuori gli ambienti ecclesiali.
Dobbiamo evitare di ricadere ancora una volta nella trappola della “bioetica di Porta Pia” che porta a sterili contrapposizioni.
Non dobbiamo avere paura delle posizioni etiche diverse, ma dell’incapacità di assumere la sfida del ragionamento e dell’argomentazione.
(*) articolo originariamente pubblicato su “La voce dei Berici “