Premi Nobel. Don Tanzella Nitti: “Il desiderio di conoscenza è un desiderio di verità”
Una riflessione a tutto campo sulla bellezza del sapere con don Giuseppe Tanzella Nitti, sacerdote, dottore in teologia e professore ordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma. Lo spunto arriva dalla recente consegna dei Premi Nobel che, al di là della manifestazione, rappresenta un riconoscimento alla sete di conoscenza insita nel cuore dell’uomo. Un desiderio che trova le sue radici nella ricerca di un bene più grande, di infinito che accomuna credenti e non credenti
“Il desiderio di conoscenza è un desiderio di verità. Una parola forse poco di moda, ma è ciò che sostiene la ricerca scientifica. Il desiderio di conoscere la verità, in tutte le forme in cui ci viene incontro, accomuna senza dubbio credenti e non credenti”. Don Giuseppe Tanzella Nitti, sacerdote, dottore in teologia e professore ordinario di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma, inizia così una riflessione a tutto campo sulla bellezza del sapere. Lo spunto arriva dalla recente consegna dei Premi Nobel che, al di là della manifestazione, rappresenta un riconoscimento alla sete di conoscenza insita nel cuore dell’uomo. Un desiderio che trova le sue radici nella ricerca di un bene più grande, di infinito che accomuna credenti e non credenti. “Il desiderio di conoscenza, se ci pensiamo bene, è un desiderio di verità. Una parola forse poco di moda, ma è ciò che sostiene la ricerca scientifica. Il desiderio di conoscere la verità, in tutte le forme in cui ci viene incontro, accomuna senza dubbio credenti e non credenti. Il fatto che i cristiani conoscano con quale volto la Verità sia entrata nella storia, non impedisce loro di cercarla e approfondirla, come pellegrini insieme ad altri, nel viaggio della vita. In genere, chi si occupa di discipline scientifiche, è mosso da questa passione per la ricerca, anche a costo di sacrifici e rinunce. Un atteggiamento in controtendenza, direi, rispetto al clima di disimpegno e di relativismo che caratterizza la nostra epoca.
Secondo lei, la consegna del Nobel richiama anche una ulteriore “magna quaestio”, sulla quale molto è stato detto e scritto, ma che non smette di offrire spunti di riflessione e studio, vale a dire la relazione tra scienza e teologia?
Non credo che il dialogo fra scienze e teologia riceva particolare slancio dal conferimento dei premi Nobel. È vero, i vincitori dei Nobel, chiamati a commentare il loro premio, fanno spesso considerazioni di carattere sociale, filosofico o etico, e questo può favorire il dibattito su questioni che potrebbero coinvolgere anche la teologia.
Ma lo studio dei rapporti fra scienza e teologia, in realtà, non è affidato solo ai dibattiti di opinione pubblica.
È diventato ormai una disciplina universitaria, presente in molti Atenei di area anglosassone, con riviste specializzate e cattedre di certo prestigio. Mi auguro che anche qualche Università Pontificia, perché no?, possa ospitarne qualcuna…
Come valuta la scelta del Nobel per la Fisica assegnato dalla Accademia Reale Svedese quest’anno al fisico italiano professor Giorgio Parisi e quale è, secondo Lei, lo stato di salute della ricerca italiana?
Sono stato molto contento di conoscere l’assegnazione del premio Nobel al prof. Parisi, che conosco e apprezzo. Come conoscevo Riccardo Giacconi, quando collaboravo con membri del suo gruppo a Cambridge US, durante la mia attività di radioastronomo, e il prof. Rubbia, con il quale ho coinciso in diverse riunioni alla Pontificia Accademia delle Scienze. Nelle aree che conosco meglio, quelle relative all’astronomia e all’astrofisica, la ricerca italiana gode di ottima salute ed ha ottenuto negli ultimi decenni dei risultati di altissimo rilievo mondiale, come il contributo alla rilevazione delle onde gravitazionali e la realizzazione di soluzioni tecnologiche di eccellenza nel campo dell’astronomia dallo spazio.
È però importante non lasciarci sfuggire tanti giovani meritevoli che, per mancanza di posizioni scientifiche in Patria, emigrano all’estero dopo la laurea o il dottorato, e ci restano. Fra loro ci sono tanti potenziali Nobel, che sarebbe bene non abbandonassero del tutto i nostri laboratori e le nostre Accademie.
Come suscitare sempre più, in tutti, soprattutto nei giovani, il desiderio di conoscere?
Favorendo in loro il gusto per le grandi domande, quelle che allargano gli orizzonti e propongono interrogativi attraenti: qual è il posto dell’essere umano nel cosmo? Come si è originata la vita sulla terra? Qual è l’origine delle leggi di natura? Come unire progresso scientifico e progresso umano? Una volta queste domande entusiasmavano i giovani delle nostre scuole e motivavano la loro iscrizione alle facoltà universitarie di indirizzo scientifico. Oggi si è più interessati all’immediato, ai beni di consumo, a ciò che ci produce piacere. Dobbiamo educare a pensare. Non solo preoccuparci di ciò che i nostri studenti faranno “da grandi”, ma aiutarli a fare qualcosa “di grande”.
Per il cristiano c’è un fine ultimo anche nella ricerca e nella scienza. È come se Dio svelasse progressivamente – grazie anche al lavoro scientifico – la bellezza del mistero che accompagna da sempre la vita degli uomini e dell’universo. Quale è – a Suo parere – la pedagogia divina per rivelare all’umanità tali conoscenze per renderla sempre più partecipe della bellezza del creato?
Già i Padri della Chiesa dicevano che Dio, oltre alla sacra Scrittura, aveva dato agli uomini anche un altro libro, quello della Natura. La metafora ha attraversato tutta la storia ed è oggi ancora presente, sotto forme diverse, in molti scienziati contemporanei: la natura ha qualcosa da dirci, il cosmo rivela una razionalità che ci permette di studiarlo.
È in fondo questa la pedagogia, ritengo, impiegata dal Creatore.
È un libro ci parla del suo Autore, lo fa attraendo, ma anche con discrezione, lasciando che sia la nostra attenzione, soprattutto quella degli scienziati, a sfogliarne in profondità le pagine.
Dunque la conoscenza, qualsiasi forma di sapere, non è un patrimonio geloso da occultare né da riservare a pochi eletti, bensì un’opportunità da mettere a disposizione di tutti…
Direi proprio di sì. C’è una carità intellettuale e non dobbiamo dimenticarlo. Promuovere la dignità di una persona vuol dire non soltanto assicurargli i beni primari, cibo e un tetto, che non devono mancare a nessuno, ma anche consentir loro di vivere in modo pienamente umano, nutrendosi del pane della cultura e della conoscenza, senza del quale non realizzerebbero pienamente la propria dignità. Le periferie verso le quali papa Francesco ci anima a dirigerci non sono solo quelle materiali, ma anche quelle intellettuali, dove il Vangelo, forse, non è ancora arrivato.
Amerigo Vecchiarelli